Esperto di Calcio

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19 dicembre 2014

Storie di calcio: l'animo Gunners, Thierry Henry

La forza di uno schiaffo con l'eleganza di una carezza. Thierry Henry può essere definito con queste semplici parole, che dipingono sufficientemente bene che grandissimo giocatore sia stato.
Un attaccante completo, feroce in area di rigore e prezioso in fase di costruzione di gioco; mortifero, freddo e spietato davanti al portiere; capace di giocate ai limiti della fisica, belle da vedere ed impensabili per un comune mortale. Implacabile nell'uno-contro-uno, madre natura ha donato a Titì un cambio di passo fuori dal comune, che unito ad una tecnica stellare lo rendeva un attaccante immarcabile, devastante.

Nato e cresciuto in un distretto parigino, Henry è stato iniziato al calcio dal padre Antoine, originario della Guadalupa e grande appassionato di calcio. Duro, come spesso molti padri di grandi sportivi, Antoine inizia il piccolo Thierry al mondo del calcio. E' chiaro a tutti che il ragazzo abbia un potenziale fuori dal comune, ed il suo primo estimatore è Arnold Catalano, osservatore del Monaco, che gli offre l'ingresso in squadra senza bisogno di alcun provino.
Nel principato Henry cresce fisicamente e tecnicamente, tanto da attirare su di sè l'attenzione del manager del Monaco, Arsène Wenger. Il tecnico alsaziano ha il coraggio di aggregare alla rosa della prima squadra un Henry non ancora maggiorenne, facendolo debuttare nel 1995. Thierry, abituato a svariare su tutto il fronte d'attacco, viene adattato sull'esterno, dove la sua velocità ed il dribbling secco, fulmineo, possono fare la differenza. Per nulla spaventato dal confronto con i grandi, Henry mette a referto 8 presenze e 3 reti, guadagnandosi un posto in pianta stabile per gli anni avvenire.
Agli ordini dell'ex stella transalpina Jean Tigana, Henry forma con Trezeguet e Guivarc'h uno dei tridenti più letali dell'intero continente, riportando il Monaco sul tetto di Francia e incantando in Champions League, dove incrocia il suo più immediato futuro, la Juventus.

Nonostante Henry non segni a grappoli, come abituato a fare nelle giovanili, Luciano Moggi decide di investire sulla stella di origine caraibica. Nell'inverno del 1998, a sorpresa, Henry è il regalo che la dirigenza bianconera fa ad Ancelotti, subentrato a Marcello Lippi ed orfano di Alessandro Del Piero. Il tecnico emiliano, compiendo forse l'unico errore della sua carriera, sacrifica Henry sull'esterno di centrocampo in favore di Inzaghi ed uno fra Fonseca ed Esnaider. Nonostante tutto gioca 16 buone partite, condite da una doppietta mortifera all'Olimpico di Roma, che spiana la strada al Milan per la rimonta scudetto ai danni della Lazio.
Confermato per la stagione successiva, Henry viene di colpo venduto all'Arsenal in un torrido pomeriggio di Agosto. Una giornata indelebile, in cui fu mia nonna a riportarmi la ferale notizia, legandomi in modo indissolubile alle gesta di Titì.

A Londra lo aspetta a braccia aperte il suo primo mentore, quell'Arsène Wenger che lo aveva fatto debuttare fra i professionisti e che, per primo, aveva provato a spostare Henry sulla fascia, solo per non togliere dal campo uno fra Ikpeba e Sonny Anderson.
Ad Highbury, però, occorre un nuovo centravanti per far dimenticare ai Gunners il connazionale Nicolas Anelka, appena ceduto al Real Madrid. L'inizio non è dei migliori, con il talentino che non trova la via della rete nelle prime otto di campionato, attirando su di sé i malumori di Highbury.
"I've literally had to go back to school and be re-taught everything about the art of striking", disse Henry al The Observer, prima di ingranare la marcia alta.
Con 26 reti alla prima stagione londinese, Henry scaccia tutti i detrattori ed inizia ad incantare il mondo intero. Non si limita a segnare con sconcertante regolarità, ma si toglie lo sfizio di siglare reti da antologia e deliziare anche i palati più fini con giocate degne di una leggenda calcistica.
Insieme a Dennis Bergkamp, Robert Pires e Patrick Vieira è il simbolo dell'Arsenal più vincente della storia, diventandone da lì a poco il simbolo, il capitano.

Dopo otto anni di idillio, però, è troppo forte la tentazione di andare a Barcellona, dove ha l'occasione di giocare con Ronaldinho ed Eto'o per dar la caccia alla Champions League, trofeo sfiorato troppe volte in carriera. In blaugrana accetta di tornare a giocare sulla fascia, lasciando il centro dell'attacco al camerunense. Un sacrificio che testimonia molto chiaramente quanto Henry sia stato un campione, capace di mettersi al servizio della squadra pur di raggiungere con essa i più grandi traguardi.
Nei tre anni con la camiseta azulgrana incanta il pubblico del Camp Nou e ha l'occasione di svezzare una giovane stella, quel Lionel Messi per cui qualche anno più tardi userà parole al miele: "Lionel Messi is the best player in the world but I respect the amount of work Cristiano Ronaldo has put into the game. Messi is just a freak. It is nice for kids to watch as they can see one guy who was given a gift and the other guy who does it through hard work".
E così dopo aver vinto tutto in Spagna, in Europa e nel mondo, Thierry Henry diventa ambasciatore del calcio negli States, proprio come Pelè. Perchè d'altronde, come disse Camus, "non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio".
Ma la favola, la storia sportiva di questo grande uomo, non poteva finire così. Prima di dire addio un saluto alla sua gente era doveroso. E così, anche se per soli quattro spezzoni di match, Henry decide di tornare profeta in patria, giocando ancora una volta dinnanzi ai tifosi dell'Arsenal, segnando per loro un'ultima rete, la numero 228.


"Thierry Henry potrebbe prendere palla in mezzo al campo e segnare un gol che nessun altro al mondo potrebbe segnare", come diceva Wenger. Ma Henry è stato un grande uomo ancor prima che un campione, un esempio in campo e fuori. Simbolo della lotta contro il razzismo, Henry avrebbe meritato il Pallone d'oro, ma in fondo è in buona compagnia.
"After 20 years in the game I have decided to retire from professional football. It has been an incredible journey and I would like to thank all the fans, team mates and individuals involved with AS Monaco, Juventus, Arsenal FC, FC Barcelona, the New York Red Bulls and of course the French National Team that have made my time in the game so special. I have had some amazing memories (mostly good!) and a wonderful experience. I hope you have enjoyed watching as much as I have enjoyed taking part". Puoi star tranquillo Thierry.

16 dicembre 2014

Luca Lezzerini e i suoi fratelli: come crescono i giovani portieri

Diversi mesi fa ho scritto di un ragazzo che ha un roseo futuro dalla sua, Luca Lezzerini. In esclusiva per Esperto di Calcio, Adorno Maiani, suo primo allenatore e vero mentore. Con Adorno scopriremo come Luca Lezzerini sia diventato un portiere alle soglie dell'esordio nel calcio professionistico.

Ciao Adorno, benvenuto sul blog dell'Esperto. Racconta al grande pubblico chi sei.
Ciao a tutti, è un piacere essere qui con voi. Allora, sono un allenatore e preparatore fisico, ho dedicato la mia vita professionale ad aiutare i giovani estremi difensori italiani. Ho lavorato sette stagioni consecutive alla SS Lazio, fino ad accettare a inizio anno l'incarico con gli allievi nazionali di Lega Pro, esperienza terminata prematuramente a Settembre.

Luca Lezzerini, a quando risale il primo incontro con il giovane portiere viola? 
Nell'ormai lontano 2007, presso il centro sportivo Dablù all'Eur. Luca giocava come centrocampista per la SS Lazio ed io allenavo i portieri. L'ho subito notato per la sua stazza fisica, che sfiorava il metro e ottantacinque. Come detto, giocava centrocampista (come Buffon) e dopo un allenamento mi avvicinai a lui e gli proposi di cambiare ruolo, provare a difendere i pali.
Dopo alcuni giorni di riflessione Luca accettò la proposta di buon grado ed io iniziai ad insegnargli tutti i segreti del ruolo. Ho cercato di farlo innamorare del nuovo ruolo, fornendogli le basi specifiche per diventare un estremo difensore moderno. Lavorare con lui era bello, mi è sempre sembrato un bravo ragazzo, educato con i tecnici come con i compagni, sempre pronto a recepire gli input che riceveva dallo staff e da me in prima persona.
Il direttore sportivo Corvino, all'epoca alla Fiorentina, lo corteggiò e fu bravo a portarlo a Firenze, dove tutt'ora risiede.

Bardi, Leali, Perin e Scuffett sono solo alcuni illustri predecessori di Luca. Lezzerini ha i numeri per ricalcare le loro orme? 
I numeri ci sono, inutile nasconderlo. Per crescere, come portiere e come sportivo, occorre giocare. Allenarsi con un grande portiere può essere gratificante e stimolante, ma il solo impiego in settimana non basta a rendere completo un giocatore.
Per diventare un professionista occorre giocare, qualora non trovasse spazio nella Fiorentina gli consiglierei di provare l'avventura in cadetteria o lega pro. Farsi le ossa, come alcuni dei colleghi sopra citati, potrebbe risultare determinante per trovare una maglia in massima serie.

La scuola dei portieri italiani è, a mio avviso, la migliore del mondo. Da uomo di calcio, quale pensa possano esserme i segreti? 
La scuola italiana per quanto mi riguarda è una delle migliori al mondo. Per stare al passo coi tempi credo si debba lavorare maggiormente sulla tecnica podalica, un pochino tralasciata rispetto alla classica preparazione fra i pali. L'estremo difensore è ormai un difensore a tutti gli effetti, a cui è chiesto di sapere uscire con i piedi ed impostare l'azione. A ben vedere può diventare il primo attaccante e con i suoi lanci può creare anche occasioni da rete. Non è insolito vedere un assist del portiere, oggi giorno.

Quali sono i ragazzi da tenere d'occhio? 
Innanzitutto ci terrei a sottolineare un aspetto fondamentale: esistono due tipi di portiere, parlo di portieri in settori professionistici. Il primo è eccellente in allenamento e in partitella, ma poi in partita non è all'altezza; il secondo è invece concreto, tenace, concenctrato, cattivo (nel senso buono del termine) ma non cerca di mettersi in mostra. Ecco, è questo il portiere che ti fa vincere le partite.
Sui talenti futuri, posso fare un paio di nomi dopo averli allenati in prima persona. Si tratta di Luca Borelli (classe 1998) e Federico Rausa (1999), entrambi molto dotati fisicamente e concentrati sul loro lavoro. Se dovessi scommettere, loro due hanno le carte in regola per diventare dei professionisti.

15 dicembre 2014

Storie di calcio: il trionfale ritorno del Principe

Ci sono giocatori che ottengono fama e successo fin dai primi vagiti sportivi. Penso a Cassano e Balotelli, cristallini talenti mai del tutto esplosi che hanno indossato alcune fra le maglie più prestigiose del mondo.
Ci sono poi campioni assoluti, fuoriclasse, che invece faticano ad emergere, poco spinti da stampa e procuratori o semplicemente sottovalutati dagli osservatori di tutto il mondo. Uno di questi è senza ombra di dubbio Diego Milito, centravanti argentino dallo straordinario talento e dall'innato fiuto del goal. Eppure, nonostante numeri da fuoriclasse, atteggiamento da professionista e carattere da leader, Diego Milito raggiunge l'apice della carriera a 30 anni, troppo tardi per il meraviglioso giocatore che è stato.

Nato a Bernal, Diego è il più vecchio di due fratelli che hanno nel pallone il proprio destino. Nonostante fra Gabriel e Diego ci sia un solo anno di differenza, i due abbracciano scuole calcio diverse. Gabriel, detto Gabi, si lega all'Independiente, uno dei tre club più importanti e blasonati dell'intera Argentina. Diego, invece, si affida alle cure del Racing Club di Avellaneda, squadra con un glorioso passato ma in difficoltà nella seconda metà degli anni '90.
Fra i due è chiaro che Diego è quello "con i piedi buoni", eppure gli osservatori di tutto il mondo mettono gli occhi su Gabriel, che si guadagna ben presto il soprannome "El Mariscal", per il suo gioco fisico, maschio, rude. Ma in famiglia il fuoriclasse è il primogenito, che non a caso viene soprannominato "El Principe", un po' per la sua somiglianza a Enzo Francescoli, un po' per il suo modo di accarezzare il pallone. Ma evidentemente il successo non è nel suo destino, almeno per ora. Mentre Gabi diventa una colonna della Nazionale e va a giocare nella Liga spagnola, Diego resta fermo al palo.

La prima chiamata europea arriva tardi, nel 2004. A far suonare il telefono di casa Milito è il presidente del Genoa Preziosi, che decide di investire su di lui per riportare il grifone in Serie A. Milito accetta di buon grado la cadetteria e risponde presente a suon di gol, realizzandone 33 in 59 presenze e contribuendo in maniera decisiva al ritorno del Genoa nel grande calcio. In estate, il dramma. Il Genoa viene squalificato per illecito, e retrocesso in Serie C. Milito non si può permettere a 26 anni di ripartire da così indietro e decide di andarsene. Inspiegabilmente dalla Serie A nessuna offerta, ed ecco la chiamata del Real Saragozza di suo fratello Gabriel. I due, che mai fino a quel momento avevano giocato insieme, fanno le fortune della squadra aragonese, portandola al sesto posto. Gabriel è un muro in difesa, ma ancora una volta il leader è Diego. Con giocate incredibili e goal a raffica s'impone come uno dei bomber più prolifici d'Europa. A quasi 30 anni ha ormai raggiunto una maturità calcistica totale, che gli permette di essere decisivo sempre e comunque.
Nel 2008, dopo la pazzesca retrocessione del Real Saragozza (nonostante 15 reti del solito Diego Milito), il centravanti argentino cambia aria. La miopia, stavolta, è degli iberici che se lo lasciano scappare. Ad approfittarne è ancora una volta il Genoa di Preziosi, tornato in massima serie dopo l'inferno delle categorie minori.

L'impatto di Milito con la Serie A è come quello di un jet con il muro del suono. Diego Milito è un giocatore completo, che segna e fa segnare, ma che soprattutto rende una squadra di medio livello una seria candidata alle posizioni di vertice. Le giocate di Milito passano inosservate ai più, ma non ai vigili occhi di Josè Mourinho, non a caso soprannominato "Special One". Il sodalizio fra l'Inter e Milito si rivela strabiliante. Raccogliere l'eredità di Zlatan Ibrahimovic sarebbe stata dura per qualsiasi campione, rendere il centravanti svedese un pallido ricordo è impresa per un solo fuoriclasse. 
In coppia con Eto'o, reduce dai successi agrodolci in terra catalana, trascina l'Inter sul tetto d'Europa dopo svariati decenni, dimostrando ancora una volta che i campioni, nel calcio, non sono quelli con il cognome o il pedigree, ma quelli che in campo fanno la differenza. E allora c'è da chiedersi, com'è possibile che un campionissimo del calibro di Diego Milito sia giunto al suo culmine solo a 30 anni? Francamente non me lo spiego, se non pensando che tanti dirigenti del nostro calcio non sanno fare il proprio lavoro, o antepongono gli interessi economici a quelli del campo.

In estate, dopo un triste ed arido saluto alla sua Inter, Diego Milito torna a vestire la maglia del Racing, squadra che lo ha lanciato nel calcio che conta. Le ginocchia non sono più quelle di un tempo, la corsa non è fluida e i muscoli non rispondono ad ogni sollecitazione. Ma c'è qualcosa che non si perde, ed è l'essere un leader. Dentro e fuori dal campo. Milito si dimostra un vero capitano e guida i suoi compagni, non di certo una rosa di fenomeni, a giocare con il cuore e con la testa, dando l'anima in campo.
E dopo 13 anni ecco tornare ad Avellaneda il titolo, soffiato al più quotato River Plate dopo un inseguimento durato mesi. La classica fiaba a lieto fine, una di quelle storie di cui il calcio moderno ha davvero bisogno. 

11 dicembre 2014

Nè investimenti nè bilanci. E' l'icompetenza il problema del nostro calcio

La fine del Group Stage di Champions League è un momento di riflessioni e valutazioni. Volenti o nolenti è un primo spartiacque stagionale, specie per big europee che hanno il dovere di provare a vincere il più ambito e fascinoso torneo continentale.
Come spesso capita da qualche stagione a questa parte, il bilancio per noi italiani è agrodolce, ma ci sono motivi per sorridere, a seconda che si voglia vedere il bicchiere mezzo pieno o meno. Io sono una persona positiva per natura, e penso che dopo il fallimento del Napoli ai Play-off le nostre squadre ci abbiano dato di che sorridere, nonostante rimanga solo la Juventus nel massimo torneo continentale. Certo, sarebbe sciocco dire che il nostro calcio è tornato ai fasti di alcuni anni fa, ma credo che per quello ci vada molto tempo. Servono pazienza e programmazione, togliamoci dalla testa che il problema siano i soldi, i fatturati e i bilanci. Sono solo puerili scuse dietro cui i dirigenti sportivi provano a nascondere i propri fallimenti, che magari tali non sono. Perdere fa parte del gioco, a volte occorre semplicemente accettare che l'avversario sia stato più bravo o che sfortuna e circostanze avverse hanno posto fine all'esperienza in quella competizione.
Pazienza e programmazione, si diceva, ma anche tanta competenza. Se è vero che viene dato poco spazio agli italiani, fin dai settori giovanili, è altrettanto vero che non siamo più così bravi ad acquistare all'estero. Anni fa riuscivamo a portare nel Bel Paese giovani talenti, che nel nostro calcio si affermavano come vere stelle del firmamento mondiale. Fare il nome di Ronaldo, acquistato dall'Inter a fine anni '90, sarebbe fuorviante. E allora vi dico Batistuta, Amoroso, Veron, Bierhoff, Thuram e Trezeguet. E ancora, Crespo, Shevchenko, Mutu, Claudio Lopez, Javier Zanetti, Cordoba, Samuel, Salas, Adriano e Kaka. Molti di questi pagati poco o molto poco, valorizzati e amati per anni negli stadi dello stivale.

Dire che il nostro sistema calcio è morto, che siamo l'anello debole dell'Europa è qualunquistico. Sì, è vero, abbiamo dei problemi. In primis non sforniamo più talenti a raffica, come accadeva solo una decina di anni fa. A fine anni '90 avevamo l'imbarazzo della scelta in tutti i ruoli, faticavano a trovare posto giocatori che oggi sarebbero delle colonne in azzurro. Penso a Montella, Roberto Baggio, Chiesa e Signori davanti, Panucci e Materazzi in difesa, Di Matteo, Tommasi e Dino Baggio in mezzo. I nostri talenti si mischiavano a giovani stranieri dalla classe cristallina, che quando rivendevamo finanziavano il nostro mercato calciatori, favorendo l'approdo di calciatori affermati ed altri giovani campioni.
Oggi, invece, le squadre tendono a investire poco e male. Reduci dai bagordi di metà anni duemila, le grandi italiane hanno provato a risanare i bilanci. Non comprare non si è rivelata la soluzione, poichè il grosso dei club si è trovato schiacciato dai debiti in cui essi stessi si erano infilati, favorendo la proliferazione di pesantissimi contratti pluriennali. E' solo nelle ultime due stagioni che si è ricominciato a investire, ma lo si è fatto male ed il trend sembra lontano dall'essere invertito.
Numeri alla mano, le nostre squadre spendono e non poco. La Roma, solo quest'anno, ha investito per più di 58 milioni di euro, a fronte di un ricavo di 34. La Juventus ne ha spesi 36 abbondanti con un ritorno di 27 scarsi, il Napoli quasi 22 con un rientro di 16. Le milanesi, che gioco forza son quelle che hanno subito di più il colpo, hanno speso più di 12 milioni di euro. L'anno precedente le cifre sono ancora più inquietanti. Il Napoli ha speso più di 100 milioni di euro, ricavandone 73; la Roma 75 con un ottimo ritorno di 118. La Juventus 34 a fronte di un 48 milioni di ricavo, mentre le milanesi avevano ancora sperperato. Quasi 60 milioni sul mercato spesi dai nerazzurri, a fronte di un ricavo minimo di 9; 35 milioni per il Diavolo, che aveva venduto per 17.

Insomma, non è un problema di quantità negli investimenti, ma di qualità. Sono pochissimi i giocatori forti e giovani che sono stati acquistati dall'estero, ancor meno quelli a buon mercato. Pogba è una sorta di totem, tutti gli altri acquisti sono folli, tanto dall'estero quanto nel mercato interno. Alcuni esempi: 11 milioni di euro per la comproprietà di Giovinco, 30 per Iturbe (girati al Porto, non al Verona), 20 per Hernanes, 6 (più il cartellino di Cassano) per la comproprietà di Belfodil, 5 per Rafael Cabral e 20 per Balotelli. 
Ecco spiegati i problemi del nostro calcio e dei nostri dirigenti sportivi. Le stesse somme si sarebbero potute investire per acquistare talenti, veri, dall'estero. Penso a ragazzi come Emre Can, Depay, Digne, Draxler, Meyer, Halilovic, Munain, Ocampos, Vilhena, Oliver Torres, Yesil. Ragazzi su cui investire nel tempo, accanto ad alcuni dei nostri talenti, perchè ne abbiamo. I vari Barba, Improta, Verre e Bernardeschi meritano un'occasione, e quando son stati chiamati in causa hanno sempre risposto presente. Berardi, Zaza, Rugani, Crisetig e Belotti stanno conquistando posti di rilievo, e solo alcuni di loro sono in orbita di un grande club, che ad oggi non ha comunque puntato forte su di loro. O cambiamo mentalità o continueremo a raccontarci favole e favolette su quanto i problemi siano economici. 
Crisi è una parola che in Italia piace tanto, prima smettiamo di usarla prima ne usciremo. 

5 dicembre 2014

Storie di calcio: El Panteron, Marcelo Zalayeta

Il calcio è fatto di campioni, stelle. Sono loro che vengono acclamati, che passano alla storia, ma nella mente dei tifosi più caldi è difficile cancellare anche alcuni gregari. Nel mio caso, ad esempio, penso ad un ragazzone uruguagio, arrivato a Torino in punta di piedi e che per poco non scriveva una pagina indelebile della storia juventina. Sto parlando ovviamente di Marcelo Zalayeta, "El Panteron".

Cresciuto calcisticamente nel Danubio, squadra della sua natia Montevideo, Zalayeta brucia tutte le tappe. Appena maggiorenne il suo fisico possente lo porta alla ribalta, conquistandosi la maglia da titolare a suon di reti. Nel 1996, dopo 12 reti nella sua stagione d'esordio, il passaggio agli odiati rivali del Penarol, squadra natale di un altro grande idolo della mia infanzia, Paolo Montero. Con la casacca giallo-nera conferma le sue qualità, conquistandosi la Nazionale maggiore a 19 anni.
La vetrina che lo porta alla ribalta, però, è il Mondiale Under20, dove strega gli osservatori della Juventus. I torinesi bruciano quindi la concorrenza e portano l'attaccante sudamericano alla corte di Lippi, dove lo spazio è inevitabilmente chiuso dal trio Zidane, Inzaghi, Del Piero. Marcello Lippi scruta attentamente il panzer di Montevideo in allenamento, dandogli fiducia nei minuti finali della partita casalinga contro il Napoli. Pronti-via, Zalayeta timbra subito il cartellino e festeggia a fine anno un meritato tricolore.
Vista la giovane età, Zalayeta viene parcheggiato ad Empoli, alla corte dell'attuale osservatore juventino Mauro Sandreani. Qui vive una stagione buia, con pochi gol e scarse opportunità, chiuso (inspiegabilmente) da Carparelli, Martusciello e Di Napoli, non proprio tre campionissimi.
E allora ecco per Marcelo l'occasione in terra spagnola, al Sevilla. In Andalusia sente aria di casa e la fiducia del tecnico, realizzando le 10 reti più importanti della carriera, quelle che lo riportano all'ombra della Mole.

La sua seconda, e non ultima, parentesi bianconera è ancora una volta chiaro-scura, ma ricca di colpi di scena. Se la continuità d'impiego non è garantita, Zalayeta decide di far breccia nel cuore del tifo zebrato con due marcature storiche. Marcelo è l'uomo dell'ultimo secondo, quello che ti risolve le partite. E così sceglie il palcoscenico della Champions League per firmare i propri acuti. Dapprima in quel del Camp Nou, a Barcellona. Nei supplementari di una partita tesissima graffia i blaugrana con una zampata su cross di Birindelli, spianando la strada della finale alla Juventus. Capitolo triste questo, che vede il panzer uruguayano fra i protagonisti dei rigori sbagliati contro il Milan di Ancelotti, Dida e Shevchenko, fenomeno ucraino autore della segnatura decisiva.



Il secondo acuto lo piazza invece un paio di stagioni dopo, nella splendida cornice del Delle Alpi. Agli ordini di Capello, infatti, Zalayeta segna il gol decisivo contro il Real Madrid degli ormai ex-Galcticos, portando gli undici del tecnico friulano al turno successivo.
E' proprio il tecnico di Pieris che consiglia Zalayeta al Napoli ed il Napoli a Marcelo, dando vita ad una nuova storia d'amore all'indomani del ritorno in A dei bianconeri. Ma ormai i graffi della pantera sembrano tenere carezze per il calcio europeo, e dopo un biennio napoletano e una piccola parentesi bolognese, Zalayeta decide di tornare a casa. Lo fa rivestendo la maglia del Penarol, squadra con cui sembra destinato a chiudere la sua carriera di centravanti. Non certo una carriera da campione, ma per sempre nella mente e nei ricordi di chi ha vissuto le emozioni che El Panteron ha saputo regalare.

1 dicembre 2014

Storie di calcio: la dinastia dei Maldini, fra passato e futuro

Ci sono amori che non finiscono, nonostante difficoltà e incomprensioni. Il rapporto fra i Maldini ed il Milan è uno di questi. Il tutto ha inizio a metà anni '50, quando l'Italia cerca di rialzarsi dalla rovina della seconda guerra mondiale ed il calcio è lo svago della domenica.
Il primo della dinastia è un giovane ragazzo friulano, dai capelli neri e un'invidiabile serietà. Si chiama Cesare, è cresciuto nella Triestina e decide di fare la storia del Diavolo. Difensore tignoso e serio, Cesare Maldini si guadagna il rispetto dei tifosi e della società con le sue giocate, i suoi successi. Gli scudetti si ripetono copiosi, ma l'alloro più grande è la Coppa dei Campioni, alzata sotto il cielo di Wembley nel 1963, sconfiggendo il Benfica dell'immeso Eusebio. 
Impossibile eguagliarlo, inimmaginabile superarlo. Quando Paolo Maldini, il figlio, si affaccia sulla scena del calcio professionistico nessuno pensa che possa fare il percorso del padre, figuriamoci migliorarlo. E invece questo ragazzo dalla folta chioma nera e gli occhi azzurro cielo diventa un campione. Per anni è il simbolo del Milan e del calcio italiano, rappresenta l'élite della difesa. Come terzino sinistro prima e centrale poi si conquista la stima e il rispetto di tutti: tifosi, avversari, colleghi. Per quasi vent'anni è il simbolo del grande Milan, guidato ad inimmaginabili trionfi.

L'arrivederci o l'addio al Milan è stato brutto, triste. Ma il rapporto d'amore fra il Milan e i Maldini non è terminato, nonostante la tristezza e l'amarezza di quell'ultimo giorno a San Siro. E allora ecco affacciarsi sulla scena calcistica un altro difensore, Christian Maldini. Classe 1996, ha vissuto un esordio da predestinato in Primavera, trovando la rete dopo soli sessanta secondi dall'esordio in campo.
Per conoscerlo meglio ho intervistato l'amico ed ex collega Luca Brivio, giornalista con un'esperienza alla corte dell'Udinese ed uno degli autori de La Giovane Italia, interessante libro/almanacco in uscita in questi giorni.

Maldini, un cognome pesantissimo nel calcio e nel Milan. Come definirsi il giovane Christian? 
Christian Maldini è un difensore, di buona struttura fisica, classe 1996. Bisogna subito uscire dalle banalità: a meno di miracoli quando sei figlio di uno dei migliori giocatori della storia del calcio difficilmente puoi ambire a eguagliare il tuo modello. E hai tutto contro, perchè il peso del cognome è inevitabile. Il primo gol in Primavera dopo 1 minuto della partita di debutto è certamente una bella coincidenza ma bisogna - se si vuole lasciare delle possibilità di considerazione accettabili e non ambigue o fuorvianti - porre al primo posto proprio questo criterio. Ok, è il figlio di Maldini. Ma non bisogna aspettarsi un nuovo Paolo. Anche perchè, concludendo con il lato tecnico e di valutazione del ragazzo, non è mai stato un punto fermo o il fenomeno delle squadre in cui ha giocato nelle giovanili, ma uno dei tanti ragazzini che cercano di crescere e migliorare (subendo peraltro qualche infortunio di troppo, compreso quello che l'ha costretto a uscire ieri alla mezz'ora).


Con un padre cosi, quanto e che tipo di peso si ha nello spogliatoio?
Il peso nello spogliatoio credo sarebbe pari a tutti gli altri, anzi il cognome porta solo pressione in più, complicando un eventuale adattamento in caso di promozione in prima squadra. Piuttosto il tema potrebbe essere quello del ruolo di Paolo, che entrerebbe in scena solo in caso di addio di Galliani, visti i rapporti notoriamente non da buoni e vecchi amici. In ogni caso proprio per i discorsi su pressione e aspettative da "figlio di", credo che solo un fenomeno potrebbe riuscire a isolarsi da tutto e crearsi uno spazio al Milan, considerando tutto quanto detto finora.

Ecco, i rapporti tesi fra Paolo, la società e i tifosi influiranno sulla sua crescita e la sua carriera?
Per questo credo che, al netto di un percorso giovanile che finirà inevitabilmente al termine di quest'anno o al più tardi nella prossima stagione, per Christian l'inizio di carriera - ripeto qualora riuscisse a fare il passo, che non è per tutti - ad alti livelli, sarà probabilmente lontano da Milano e dal rossonero. 

Lasciamo crescere il ragazzo tranquillo, senza aspettative nè pressioni. Il calcio, in fondo, è un gioco. Business e quant'altro vengono dopo, pochi lo pensano, ma chi per chi ama lo sport dev'essere così. 

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