Esperto di Calcio

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28 novembre 2014

El Dies, Diego Armando Maradona

Inizia oggi una nuova collaborazione con un interessante e dinamica testata, lordofsports.it
Il portale, bello graficamente oltre che nei contenuti, vi guiderà nel mondo del calcio e dello sport in generale, grande vera passione degli italiani.
Per iniziare ecco a voi un'interessante retrospettiva su Diego Armando Maradona, classe e follia, genio e sregolatezza.

Siamo a Lanus ed è il 30 ottobre 1960, in una casa delle favelas argentine nasce un bambino, che viene chiamato Diego Armando Maradona. Diego è il terzo di sette fratelli di una famiglia povera, nell'Argentina degli anni '60, dove in pratica una persona che se vive o muore se ne accorgono solo i suoi genitori. Diego tra l’altro non è uno spavaldo, anzi è un ragazzo timido che le sue poche amicizie se le tiene strette. L'Argentina non è uno di quei paesi che viene nominato se si parla di politica o economia, ma bensì quando si parla di calcio. Ci sono paesi come il Brasile dove il calcio è tutto, non pensate che in Argentina sia diverso. E ogni giorno a Lanus, Diego quando finiva di lavorare, eh già lavorava, giocava a calcio con i suoi amici. Se state pensando a dei bambini al parchetto, vi sbagliate, Diego e compagni giocano in uno sterrato, che quando piove diventa fango e basta, in 25 contro 25. Di questi 50 bambini Diego è sicuramente il più forte, uno dei più strani per carità ma il più forte. Un giorno un amico di Diego viene preso all'Argentinos Juniors, squadra di calcio abbastanza nota, lui propone Diego e dopo qualche imbroglio Diego viene preso. Il più simpatico d questi imbrogli è il medesimo. Diego era alto come un normale bambino ma non aveva documenti, quindi quelli del club pensavano che fosse un nano (cosa abbastanza comune ai tempi in Argentina). Il bello è che Diego non è il migliore solo tra i compagni a Lanus, è il migliore anche nei campionati giovanili di tutta Argentina. Infatti l’allenatore dell’Argentinos Juniors, considerato il miglior allenatore giovanile di tutti i tempi, lo valorizza e lo rende un giocatore sempre più completo. Lui, insieme alla sua squadra soprannominata "Cebolles" vince tutto. Finché un giorno, per somma gioia del padre, Diego viene acquistato dal Boca Juniors. E qui che si inizia a capire cosa sarebbe potuto diventare, essere preso da minorenne al Boca significava non essere solo dei talenti. Nella trattativa il Boca ha dovuto spendere 2 milioni e cedere 4 giocatori. Tutta l’Argentina da questo momento della sua carriera capiva il suo ruolo, il classico numero 10. Piede magico, preferito il mancino. Sapeva mettere la palla giusta, al momento giusto, nel posto giusto. Tantissimi gli assist, come i gol. Quando c’era da decidere qualcosa, era il primo sulla lista per farlo. Qui si capiva che sarebbe potuto diventare uno dei migliori.

Nel frattempo Diego aveva mancato la convocazione ai mondiali del '78, e quindi voleva già rifarsi. Anche i tifosi erano straniti dalla mancata convocazione, nonostante avesse solo 17 anni. L'avventura al Boca dura poco, perché viene subito dal Barcellona. Arrivo al Barca per un miliardo e duecento mila peseta spagnole. A causa di un’epatite virale l’inizio coi blaugrana è stato tutt’altro che semplice. Comunque in 3 anni non è mai riuscito ad esprimersi e non ha vinto nulla. Gioca i mondiali dell'82, che vanno male ma già fa capire cosa può fare. Diego al Barca è già un fenomeno ma è quando si trasferisce a Napoli che avviene la consacrazione, lì diventa El Pibe De Oro che noi conosciamo a tutti. Qui dopo le prime 2 stagioni ha vinto il suo primo scudetto, nella stagione seguente rischia il triplete vincendo lo scudetto, la Coppa Uefa e arrivando in finale di Coppa Italia. Vince il mondiale del '86, dove ha dato spettacolo soprattutto nella partita con l’Inghilterra, dove segna un gol stupendo in serpentina e la famosa Mano de Dios. Arriva secondo a Italia '90, dove in semifinale con l’Italia viene accolto dal San Paolo come un eroe, dividendo il pubblico. Ma poi arriva USA '94. Maradona è positivo all'antidoping, più tardi dichiarerà: "Mi hanno tagliato le gambe." Questa suo essere tagliato fuori sarà grave per la sua nazionale che nasceva e moriva con Diego. Il mondiale l’ha terminato nel peggiore dei modi, da semplice telecronista. Il resto è storia, la scoperta delle droghe assunte da Diego nel corso della carriera, i tradimenti alla moglie ecc... Infatti uno dei tanti problemi riscossi nell’avventura del Barcellona era stato l’avvicinarsi alla cocaina e alla droga in generale.
Ma non ne parlo neanche perché si sa quando qualcuno fa cose splendide, si cercano solo le cose negative. Vedere Maradona col pallone tra i piedi era una gioia e a chi ama il calcio deve importare solo questo. Era un personaggio controverso, il migliore e il peggiore allo stesso tempo. Protagonista e antagonista, era calciatore, era un genio, ma era un uomo e come tutti gli uomini non ha nulla di perfetto.

Il signore dello sport

18 novembre 2014

Italia-Croazia e l'ennesimo spettacolo della giustizia all'italiana

In questo paese manca una profonda e radicata cultura sociale e sportiva. Lo si capisce fin dalle prime pagine dei giornali, in cui gli ultras croati vengono dipinti come il demonio. Lungi da me difenderli o giustificarli, ma quanto accaduto l'altra sera a San Siro è frutto di errori macroscopici, non ascrivibili alla sola milizia ultras di Zagabria.
Se infatti è inammissibile che delinquenti e mezze tacche siano prestati al mondo del tifo, inquinando quello che è uno sport meraviglioso, è altrettanto vero che esiste un servizio di sicurezza che non funziona. La Lega, da tempo, sventola la necessità che i club si paghino il servizio d'ordine. Giustissimo, perchè noi cittadini dovremmo rimetterci, pagando poliziotti che prestano servizio d'ordine in uno stadio? Ebbene, a Milano non giocava nessun club. Giocava la Nazionale italiana, e la Lega aveva il sacrosanto dovere di fare andare tutto per il meglio, in campo e sugli spalti; prima, durante e dopo il match.
E invece abbiamo assistito al solito scempio, con pochi "tifosi" che diventano padroni dello spettacolo, mettono in scacco sessantamila persone per bene e costringono l'arbitro a sospendere il match. Questo non è calcio, e questa partita andava sospesa. Magari con una sconfitta a tavolino per entrambe le squadre.
Se da un lato è vero che a macchiarsi del fatto sono stati i nostri avversari, noi gli abbiamo permesso di farlo. Le cariche della polizia in curva, ennesima testimonianza di un servizio di prevenzione inesistente, sono valse a ricordare quanto la violenza permei il nostro sistema di sicurezza. La paura, lo sgomento, quella sensazione di insicurezza perenne, avevano già permeato le brave persone di San Siro, che hanno lasciato la stadio in barba al fatto di aver speso soldi per il biglietto.

Ma com'è possibile, mi chiedo, che quando vado allo stadio vengo rivoltato come un calzino, e poi entrano razzi, bottiglie, bombe carta e petardi? Semplice e pura connivenza. Oggi si scrive da più parti che c'erano stati zelanti controlli a Trieste. Non mi pare affatto un deterrente. Ai tornelli, poi, le tre scimmiette: non vedo, non sento e non parlo. E non mi riferisco solo alle perquisizioni mancate o non fatte nel settore ospite, ma a tutto ciò che entra nello stadio. Non è da escludersi che i croati, supportati dai sempre preparati ultras nostrani, non abbiano trovato in loco tutta l'attrezzatura. Ebbene, credo che la responsabilità sia ancora una volta della Lega. Avrebbe dovuto vigilare sul servizio d'ordine, impedire che tutto questo accadesse.
Francamente, dopo aver sentito i vari Tavecchio e Malagò parlare, non potevamo aspettarci altro. Quest'ultimo è riuscito a riferirsi al presidente della federcalcio croata come "Dario Suker". Ecco, peccato che il signore in questione sia un certo Davor Suker, campionissimo in campo e realmente imbarazzato per quanto accaduto. Così come i suoi giocatori, che hanno definito questi militanti come "delinquenti e non tifosi".
George Bernard Shaw diceva: "La giustizia è sempre giustizia, anche se è fatta sempre in ritardo e, alla fine, è fatta solo per sbaglio". Spero davvero che non avesse ragione.

17 novembre 2014

Storie di calcio: Danny Ings e il calcio che vorrei

Cari lettori ed appassionati del blog, devo dirvi che per me questo periodo è stato calcisticamente travagliato: devo ammettere che la passione che mi ha sempre contraddistinto è andata lentamente scemando.
Campionato "spezzatino", coppe, coppette e coppettine. Partite ogni giorno della settimana. Un tasso tecnico mediocre e un mondiale che non si farà ricordare per gesti tecnici o nuove alchimie tattiche. Osservi il calcio del nostro bel Paese e gli unici sussulti sono gli Opti Pobà, la dotazione delle bombolette spray per gli arbitri, la nomina di un commissario tecnico messo a libro paga dallo sponsor, un campionato che sta dimostrando un equilibrio decisamente direzionato verso il basso: per conferme chiedete pure alle nostre avversarie europee in Champions. Viviamo in un contesto talmente mediocre dove ci si entusiasma per l'atterraggio di tale Massimo Ferrero, detto "er viperetta": per me, tifoso blucerchiato, è stato l'ennesimo colpo basso. Forse quello di grazia.

In questo momento seguo il calcio con un distacco quasi nauseabondo, causato da creste e scarpe fluorescenti scorrazzanti per il campo guidate da catenacciari seduti su una panchina, che si esibiscono in stadi fatiscenti dove quei pochi che vi si presentano lo fanno per insultare le origini e la razza del proprio avversario e non per sostenere il proprio club, dove l'arbitro della finale mondiale impiega tre minuti per decidere se concedere o meno un calcio di rigore, dove pennivendoli, opinionisti e telecronisti ricercano uno spunto di discussione dal nulla più totale, il tutto trasmesso da delle pay tv che si inventano nuove inquadrature stile "slow motion" per sopperire alla mancanza di gesti tecnici e giustificare dei canoni mensili da usura legalizzata. Provi a cercare una speranza altrove, magari dalle serie minori, e le uniche notizie che trovi riguardano nuovi sospetti di combine, aggressioni ad arbitri minorenni e i soliti tafferugli causati dal cosiddetto "pubblico pagante".

Non sono uno che si arrende facilmente, ma in momenti come questi si ha bisogno di un qualcosa, un qualcuno che possa riaccendere la speranza nello sport che ami. Personalmente l'ho trovata oltre lo Stretto della Manica, dalla madre del football: si chiama Daniel William John Ings, detto Danny, attaccante del Burnley. Nato a Winchester il 23 luglio del 1992, finora può vantare una carriera spesa tra Bournemouth, Dorchester Town e dal 2011 con il passaggio ai "Clarets". Una carriera quasi trascurabile verrebbe da dire, nonostante cinque presenze e due gol nella Under 21 albionica. Quindi, perchè riporre le mie speranze in Ings? Cos'ha di tanto speciale da potermi indurre a concedere un'ultima possibilità al calcio professionistico?

Ebbene, ho deciso di riporre le mie speranze in questo ventiduenne con il dieci sulle spalle e la fascia di capitano al braccio, trovatemene uno in Italia, perchè ogni volta che scende in campo è capace di rendersi protagonista, sia in campo che fuori. Un protagonista positivo. Con le sue prestazioni è riuscito a far ottenere al Burnley l'agognato ritorno in Premier League dopo ben quattro anni di assenza nonostante una concorrenza agguerritissima. Danny non è un top scorer con una media gol vertiginosa, ma un trascinatore tutto cuore e tecnica al servizio del collettivo. Insomma, il capitano che tutti vorremmo avere. Però le poche marcature che riesce a realizzare non sono mai banali, così come il loro festeggiamento. Ormai siamo abituati a capriole, balletti, mosse inconsulte: sappiate che Ings non è uno che festeggia così dopo un gol. Ings è uno che dopo ogni rete va a salutare un bimbo su una sedia a rotelle che assiste a tutte le partite casalinghe dei "Clarets" sul bordo del campo del Turf Moor. A volte lo bacia sul capo, a volte lo abbraccia, a volte lo indica per dedicargli la marcatura. Ma ci sono delle occasioni che vanno ricordate e festeggiate nel migliore dei modi. E' il 21 Aprile del 2014: nell'ultima partita della stagione contro il Wigan, al triplice fischio finale i tifosi del Burnley hanno immediatamente invaso il campo per l'entusiasmo dovuto alla promozione in Premier League. A questo punto il nostro capitano Danny Ings, con le lacrime agli occhi, ha cercato e ha trovato questo bimbo, anch'egli in lacrime. Si sono abbracciati, più forte che mai. Una immagine che ti tocca dentro, nel profondo. Ed ogni volta che la vedo so che in Inghilterra c'è un bambino portatore di handicap che ha festeggiato ancora una volta insieme al suo capitano un momento di gioia della propria squadra del cuore.

Bene, Signori: qui ritrovo la speranza. Perchè per me il calcio è questo. E' quel momento di sana competizione sportiva dove ci si affronta, confronta e comporta da Uomini, quelli con la U maiuscola. E' quel momento in cui dove non ci si comporta da rockstar ma dove si mostrano i veri valori, quelli fondamentali per ogni essere umano prima e per ogni sportivo poi. Per me il calcio in questo momento è Danny Ings, un calciatore che ogni maledetta domenica riesce a giocare e vincere la partita più importante: quella di rendere il mondo del calcio un posto migliore grazie a dei piccoli grandi gesti.
Perchè come diceva Nereo Rocco "quello che fai sul campo è quello che sei: in pochi minuti di gioco puoi dimostrare la tua vera natura". Ma a uno come Danny serve molto meno: gli basta un minuto di gioia.

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