Esperto di Calcio

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1 agosto 2014

Storie di calcio: l'indio, Matias Almeyda

"Era l’avversario che mi piaceva di più. Lui mi dava una botta e io mi alzavo senza dire nulla. Io gli davo una botta e lui si alzava senza dire nulla. Lui a sinistra, io a destra: ci scontravamo sempre. Una guerra. Una volta in un’intervista esposi il mio modo di pensare. Prima della gara successiva Davids mi è venuto incontro. Ho pensato che era arrivato il momento di fare a pugni, invece lui mi ha stretto la mano e mi ha detto: "Bravo, la penso esattamente come te". Avremmo potuto diventare amici".
Sono queste le storie di calcio che amo, che voglio che amiate, che voglio raccontare. Storie di uomini e atleti che in campo davano tutto, per sè stessi e per la squadra. L'io si fondeva con l'esigenza dei compagni, il successo e la fama personale passava attraverso il sudore riversato in campo, a volte oltre i limiti del consentito. Esattamente come la vita di Matias Almeyda, vissuta senza freni e inibizioni, cercando la gloria in quell'incredibile rettangolo verde circondato da migliaia di persone.

Di Almeyda si potrebbero raccontare tante cose. Dal suo pazzesco goal a Buffon, in un Parma-Lazio di tanti anni fa, alle migliaia di palloni recuperati; dal suo correre incessante dietro agli avversari, ai successi con River Plate, Parma e Lazio. Ma le parti più incredibili ce le racconta lui stesso, in una biografia intrisa di aneddoti, curiosità, confessioni, verità. Una storia da moderno gladiatore, o più semplicemente da Matias. "Undici Almeyda, vogliamo undici Almeyda".



"Per tutta la carriera ho fumato dieci sigarette al giorno. Anche l’alcol è stato un problema. Bruciavo tutto negli allenamenti, ma vivevo al limite. Una volta ad Azul, il mio paese, ho bevuto cinque litri di vino, come fosse Coca Cola, e sono finito in una specie di coma etilico. Per smaltire, ho corso per cinque chilometri, finché ho visto il sole che girava. Un dottore mi ha fatto 5 ore di flebo. Sarebbe stato uno scandalo, all’epoca giocavo nell’Inter. Quando mi sono svegliato e ho visto tutta la mia famiglia intorno al letto, ho pensato che fosse il mio funerale".
"Alla Lazio si è visto l’Almeyda migliore. Ero tra i più bassi, quindi ho allestito una palestra a casa per rinforzarmi, tiravo anche di boxe. Là mi sono fatto tatuare l’indio sul braccio: la mia bisnonna lo era. Andavo all’allenamento con i jeans a pezzi, a volte senza maglietta, con una striscia a legare i capelli lunghissimi: pensavano che fossi proprio un indio".
"Una volta al Parma ho lasciato lo stadio nel baule della macchina dei miei suoceri. C’erano 20 ultrà che mi aspettavano per un gestaccio che avevo fatto. In realtà era stato solo uno sguardo, ma di sfida, dopo che mi avevano urlato qualcosa. Avevo fatto amicizia con un gruppo di rugbisti argentini, che per la gara successiva mi hanno accompagnato al Tardini. Un ultrà grande e grosso mi ha fermato con la pancia: "Devi chiedere scusa ai tifosi". "Non chiederò scusa per qualcosa che non ho fatto", ho risposto sapendo che i miei amici erano pronti a intervenire".

"Al Parma ci facevano una flebo prima delle partite. Dicevano che era un composto di vitamine, ma prima di entrare in campo ero capace di saltare fino al soffitto. Il calciatore non fa domande, ma poi, con gli anni, ci sono casi di ex calciatori morti per problemi al cuore, che soffrono di problemi muscolari e altro. Penso che sia la conseguenza delle cose che gli hanno dato".
"Dopo che avevo litigato con Stefano Tanzi, una volta mi ferma la polizia e mi sequestra la macchina. Giorni dopo, mi sono svegliato e la macchina nuova era sparita dal garage. A Milosevic, lui pure in conflitto con la società e con un contratto alto come il mio, capitava lo stesso. Un giorno mia moglie torna a casa e sente delle voci all’interno. Scappa e chiama la polizia. A casa poi non mancava niente. Ma c’era una manata sulla parete. Fatta con olio di macchina. Un messaggio mafioso. Mia moglie ha avuto un parto prematuro. Dopo il Mondiale ’02 a Parma non sono più tornato".
"Sul finire del campionato 2000-01, alcuni compagni del Parma ci hanno detto che i giocatori della Roma volevano che noi perdessimo la partita. Che siccome non giocavamo per nessun obiettivo, era uguale. Io ho detto di no. Sensini, lo stesso. La maggioranza ha risposto così. Ma in campo ho visto che alcuni non correvano come sempre. Allora ho chiesto la sostituzione e me ne sono andato in spogliatoio. Soldi? Non lo so. Loro lo definivano un favore...".

"Lele (Adani) è la mia anima gemella. Ci siamo conosciuti quando io iniziavo a stancarmi dal sistema. Lo considero il fratello che mi ha dato la vita. È venuto a vedere il River e un giorno lavoreremo insieme in Italia. Anche con Roberto ho ancora un buon rapporto. È un fuoriclasse, ma correvo io per tutti e due. Glielo dico sempre: "Mi hai distrutto il fegato, da quanto mi hai fatto correre".
E a chiudere l'esperienza meneghina, a portarlo alla depressione. "È iniziata a Milano. Due infortuni, troppo tempo senza giocare. Pensavo e pensavo. Un giorno non sentivo più la mano, quello dopo avevo perso la sensibilità nella metà del corpo. All’Inter c’era una psicologa. Mi diagnosticò attacchi di panico e prescritto una cura, ma non le ho dato retta. Ho capito che dovevo fare qualcosa quando mia figlia mi ha disegnato come un leone triste e stanco. Da allora tutti i giorni prendo antidepressivi e ansiolitici. Le chiamo le pillole della bontà, mi fanno essere più buono".

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