Esperto di Calcio

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28 marzo 2014

Storie di tweer: the italian job, Chelsea FC

Le squadre di tutto il mondo cercano costantemente di soddisfare i fan, di regalare loro emozioni e chicche rare. Ad aiutare i club di tutto il mondo, recentemente, sono arrivati i social media. Facebook è lo strumento "principe" per far parlare i tifosi, per farli sfogare. Twitter garantisce la possibilità di regalare dei reperti di valore inestimabile.

Protagonista dell'odierna puntata di "storie di tweet" la squadra britannica più italiana di tutte, il Chelsea. Divenuta celebre con lo Special One in panchina, ha iniziato la sua crescita con Gianfranco "Magic Box" Zola, Gianluca Vialli e Roberto Di Matteo. Quest'ultimo, dopo aver alzato coppe sul campo, ha guidato i Blues all'alloro più grande: la Champions League.





Il più grande giocatore del secolo per i tifosi del Chelsea



Stava nascendo una grande squadra, un mix di calcio latino e britannico













Fino ai giorni nostri, con lo Stamford Bridge in festa

























Fino a Samuel Eto'o, un campione senza età.



26 marzo 2014

Storie di calcio: da Bobo Vieri a Diego Costa, i pichichi colchoneros

Lo avevo scritto mesi e mesi fa, questo Atletico Madrid fa paura. Oggi, alla luce di un Clasico pazzesco, lo ribadisco con forza: gli uomini di Simeone ce la possono fare. Non è semplice, sarà un'impresa, ma se la Liga finisse oggi sarebbero i campioni. Tre squadre in un punto, le grandi di Spagna che lottano per la Liga più emozionante e bella degli ultimi trent'anni.
L'Atletico, a caccia della stella, ha un potenziale offensivo notevole, mirabile. Diego Costa e David Villa sono dormidabili, a dir poco. Il potenziale offensivo dei colchoneros, però, ha radici ben più antiche e nobili, radicate negli ultimi anni degli anni '90, quando al timone della squadra c'era il magnate madrileno Jesùs Gil.
Capace di portare i biancorossi dal paradiso della Liga (1996) all'inferno della retrocessione (2000), Gil ha portato a Madrid grandissimi giocatori: da Simeone a Penev, da Jugovic a Solari. Il presidente dell'Atletico, però, aveva un grande sogno, costruire un attacco atomico. Da allora l'Atletico e i suoi tifosi hanno potuto rimirare grandissimi bomber, fuoriclasse di livello mondiale.
Il primo ad inaugurare questa favolosa sequenza è un ragazzone italiano, forte come un toro e talmente decisivo da saper chiudere la Liga con la pazzesca media di un goal ogni 90 minuti. Sto parlando ovviamente di Christian Vieri, centravanti approdato ai colchoneros nell'estate del 1997 per l'astronomica cifra di 40 miliardi di lire. Vieri, esploso solo qualche mese prima con la Juventus, fa letteralmente impazzire i tifosi del Calderon con le sue giocate. Giocate di alta scuola alternate a goal da ariete di razza, Vieri trascorre a Madrid una stagione da protagonista. Sul più bello, quando a Madrid sono convinti che non possa che crescere, qualcosa si rompe. Sulla panchina dell'Atletico approda Arrigo Sacchi ed il sodalizio fra Bobone e Madrid si rompe, tanto da fare ritorno in Italia senza nemmeno mai mettere in campo nella stagione successiva.





Come detto, dopo l'ascesa di metà anni '90, l'Atletico Madrid sprofonda in un baratro chiamato Segunda Division. A far rialzare la testa ai colchoneros ci pensa un giovane attaccante. Biondo, longilineo e con due gancette rosse, Fernando Torres nasce e cresce nella cantera madrilista. Fin da ragazzino si vede che ha un talento fuori dal comune e le difficoltà dell'Atletico di inizio anni 2000 spingono la dirigenza e lo staff tecnico a vedere in Torres il possibile salvatore della patria. Niente di più corretto, perchè "El Nino", come lo soprannominano i tifosi del Calderon, esplode letteralmente. Gioca in un Atletico meno forte e competitivo di questo, ma fa la differenza. Torres è alto, ma agile; forte di testa e con un piede educatissimo, l'ideale per il nuovo ciclo dell'Atletico, che non vedeva una stella da alcuni anni. Cinque anni, 91 reti ed una chiamata irrinunciabile dall'Inghilterra, dove il Liverpool fa carte false pur di averlo. Così, El Nino Torres saluta i colchoneros, lasciando il testimone ad un giovane argentino di cui si dice un gran bene.



Sergio "El Kun" Aguero approda in biancorosso nel 2006, dopo aver fatto ammattire le difese argentine con la casacca dell'Independiente. 18 reti convincono l'Atletico a sborsare 20 milioni di euro pur di comporre l'accoppiata con Fernando Torres. I due insieme fanno faville, ma giocano solamente una stagione. Partito El Nino, direzione Liverpool, la stella dell'attacco rimane El Kun, giocatore dalla tecnica formidabile e dal dribbling ubriacante. Su di lui in patria si sprecano i complimenti, tanto da essere considerato superiore ad attaccanti memorabili come Carlitos Tevez, a cui ben presto soffia il posto in Nazionale accanto al totem Messi. Il talento di Aguero non si discute, ma in zona goal fatica a imporsi. L'Atletico si cautela acquistando un uruguagio dal Villareal: Diego Forlan. I due si legano alla perfezione, quasi fossero lo zucchero e le uova. Si completano, tanto nell'ultimo passaggio quanto in zona goal. In due segnano qualcosa come 50 reti al primo anno in coppia, una cifra letteralmente astronomica. In quattro stagioni fanno la storia dell'Atletico Madrid, realizzando goal a raffica e contribuendo a scrivere pagine di grandi successi. Dopo anni bui, infatti, i colchoneros tornano in Europa, riuscendo a giocare la Champions League e l'Europa League. Sfiorano anche il successo in Copa del Rey, ma si devono arrendere in finale al solito Barcelona.



Le dolorose cessioni di Aguero e Forlan, rispettivamente a Manchester City ed Inter, rimpinguano le casse dell'Atletico, che sul mercato fa la voce grossa. In avanti, come erede della coppia d'oro, viene ingaggiato un colombiano che tanto bene ha fatto con il Porto: Radamel Falcao. Reduce da 51 presenze e 41 reti con la maglia dei Dragoes, Falcao non perde il vizio nemmeno al Calderon. E' lui l'uomo in più dell'Atletico Madrid, che torna finalmente ad alzare trofei importanti. L'Europa League, vinta in finale contro l'Athletic Bilbao di Fernando Llorente, è il primo tassello di una serie di trionfi firmati Falcao. L'anno successivo, infatti, schianta il Chelsea in Supercoppa, alzando al cielo di Montecarlo un trofeo mai vinto nella più che centenaria storia dell'Atletico Madrid. Il connubio con Simeone è formidabile, Falcao incanta l'Europa con le sue giocate ed attrae su di sè sirene importanti. Nell'estate scorsa, quando Real Madrid e Chelsea sembrano pronte a portarlo in società, la spunta il Monaco. Ambizioso il progetto monegasco; troppo remunerativo per rifiutare. Così, dopo Vieri, Torres, Aguero e Forlan, l'Atletico perde un altro grande campione in avanti.





A Madrid, però, ci sono abituati e non si buttano di certo giù. Con i soldi di Forlan viene acquistato solamente David Villa, messo a far coppia in avanti con un brasiliano recentemente naturalizzato spagnolo. Diego Costa, talento quasi coltivato in casa, viene promosso a titolare inamovibile dopo una stagione da comprimario di Falcao. Lo spagnolo esplode, deflagra letteralmente. I suoi goal, al momento, sono 31, buoni per far pensare ai colchoneros di farcela davvero stavolta. La Liga è a pochi passi, e sarebbe un sogno davvero battere due corazzate come Real Madrid e Barcelona.

24 marzo 2014

Storie di tweet: Il Manchester United, da Sir Bobby Charlton all'eterno Ryan Giggs

Le squadre di tutto il mondo cercano costantemente di soddisfare i fan, di regalare loro emozioni e chicche rare. Ad aiutare i club di tutto il mondo, recentemente, sono arrivati i social media. Facebook è lo strumento "principe" per far parlare i tifosi, per farli sfogare. Twitter, che ho spesso sottovalutato, garantisce la possibilità di regalare dei reperti di valore inestimabile.


Il Manchester United, una delle squadre britanniche a cui son più legato, mi ha dato la possibilità di condividere con voi alcuni grandi momenti della storia dei Red Devils.































Fino ai giorni nostri, dove cambiano gli interpreti ma rimangono i campioni.













Con un "ragazzo" che spicca fra tutti, Ryan Giggs. Campione immenso, unico.


22 marzo 2014

Storie di calcio: Patrick Kluivert, il tulipano nero

Tutti quanti abbiamo negli occhi le magie del Barça di Guardiola, a detta di molti "la squadra più bella e forte degli ultimi anni". Oggi, però, non voglio parlarvi delle imprese di Pep; ne di quelle di Vilanova o del Tata Martino. Voglio ricordare con voi la squadra del centenario, il Barcelona di Louis Van Gaal, che nel 1999 conquista la Liga. A guidarla non c'erano Messi, Iniesta e Xavi, ma i campioni, in Catalogna, non mancavano. Agli ordini del santone olandese, infatti, c'era capitan Guardiola; Frank De Boer, Louis Figo e, in attacco, un tulipano nero. Patrick Kluivert, fresco di trasferimento in Spagna dopo un'annata a dir poco opaca con il Milan, sarà l'ariete in grado di scardinare le difese iberiche, trascinando i blaugrana al titolo con i suoi 15 goal nella liga.

Nato e cresciuto in Olanda, Kluivert si afferma nella scuola dell'Ajax, fucina di talenti europea. Qui scala rapidamente le gerarchie, fino a conquistarsi il posto da titolare nella stagione 1994-95. A lanciare il talento di Amsterdam è un giovane ma vincente allenatore locale, Louis Van Gaal.



L'alchimia fra i due è totale. Kluivert ha un impatto pazzesco sul calcio che conta, chiudendo il primo anno con la maglia dell'Ajax con uno score da bomber consumato: 37 presenze e 21 reti. Niente male per un ragazzo di appena 18 anni. Il centravanti è uno che lavora duro, ha un unico grande obiettivo: rinverdire i fasti di Marco Van Basten, l'idolo di quand'era bambino.



Per farlo si affida anima e corpo al lavoro sul campo, ascoltando i compagni più esperti e il suo allenatore. I primi successi non tardano ad arrivare, tanto in Olanda quanto in Europa. Kluivert è, insieme a Litmanen, il finalizzatore di una squadra eccezionale, giovane ma già in grado di dominare il palcoscenico internazionale. Nel '96, in quel di Vienna, è proprio il talento tulipano a regalare ai lanceri la Champions League, trafiggendo con un goal di rapina Sebastiano Rossi. Il trionfo sul Milan chiude l'epopea del Diavolo e sembra dar vita all'ascesa olandese, con una generazione di talenti pronti a prendersi la scena.



"Se non conosci il nemico, ma conosci soltanto te stesso, le tue possibilità di vittoria saranno pari alle tue possibilità di sconfitta". Galliani decide di rivisitare a modo suo il motto di Sun Tzu e nell'estate del 1997 si presenta ad Amsterdam con il libretto degli assegni. Riparte dall'Olanda con le tasche vuote, ma alla sua destra siede Edgar Davids; alla sua sinistra Patrick Kluivert. I due sembrano destinati a rinverdire i fasti dei grandi olandesi rossoneri, ma qualcosa s'inceppa. Davids vive ai margini e nel giro di sei mesi viene (s)venduto alla Juventus, dove ribadirà di essere un campione a tutto tondo. Kluivert vive invece una sorta d'involuzione offensiva, chiudendo la stagione con il magro bottino di 9 reti fra campionato e coppa.
Si sa, il Milan non t'aspetta. Così in estate la grande opportunità si chiama Barcelona. A volerlo è il suo mentore, Van Gaal, a cui è impossibile dire di no. In catalogna Kluivert ritrova il sorriso, ma soprattutto la vena realizzativa. In sei stagioni con la maglia del Barça si conquista l'amore e il rispetto dei tifosi, ricambiandoli con goal pesanti e di pregevole fattura. Guai a pensare a Kluivert come un mero finalizzatore, l'olandese era uno che dava del tu alla palla. Sapeva cosa fare e come farlo, si sentiva a suo agio in tutte le zone della metà campo avversaria.
Nonostante un fisico imponente, Kluivert era stato dotato da madre natura di piedi sopraffini e tecnica invidiabile. Uomo goal e all'occorrenza anche assist-man, Patrick è uno di quelli che vorrei sempre avere nella mia squadra. Sapeva fare tutto, e lo faceva bene. Giocava di sponda e faceva salire la squadra; finalizzava e dialogava coi compagni; era sempre lucido e in partita.



A Barcelona ha fatto coppia con grandi giocatori, integrandosi alla perfezione con loro. Dapprima con Figo; quindi con Rivaldo; infine ha fatto da chioccia ai giovani talenti Javier Saviola e Ronaldinho Gaucho, con cui instaura un rapporto d'amicizia profondo.
In catalogna vive da protagonista la genesi del grande Barça, salutando tutti nel 2004. Pian piano ha visto crescere tutti i più grandi talenti del calcio spagnolo, da Puyol a Xavi passando per Iniesta e Valdes.



Lascia il Barça in buone mani, a Eto'o Larsson e Messi, non proprio i primi tre passati per strada. I 120 goal segnati con i blaugrana gli valgono le ultime esperienze con Newcastle, Valencia, Psv e Lille, dove chiuderà la carriera nel 2008.

Oggi, impegnato con l'UEFA come testimonial, si gode la vita e le sue grandi passioni: il beach tennis e la pesca.





Il calcio, però, non lo ha dimenticato e resterà sempre nel suo cuore

20 marzo 2014

Pillole di Champions: l'orgoglio United e il solito straripante CR7

Con i match di ieri sera sono andati definitivamente in archivio gli ottavi di finale di Champions League. Tutto come da pronostico, con le grandi d'Europa che non perdono colpi. Le favorite son riuscite a passare il turno con relativa semplicità; lo United, nobile in declino, ha sfoderato ieri una prestazione convincente. Tre squilli di tromba di Robin Van Persie fanno scorgere un minimo di sole ad un Moyes incupito, sempre più nell'occhio del ciclone in quel di Manchester.

Bayern v Arsenal: tutto come da pronostico. A nulla è valso un Podolski "profeta in patria", i bavaresi di Guardiola sono la grande favorita del torneo insieme al Real Madrid.
Lo spagnolo è soddisfatto: "Arsenal had prepared for this game and decided to play on the counter-attack. We managed to minimize the number of mistakes we made. We played in a very intelligent way. I am very pleased with my team".
Rammaricati ma carichi i Gunners, con un Ramsey positivo e pronto a nuove battaglie:



Atletico Madrid v Milan: "Dobbiamo affrontare tutti, ma se devo scegliere pesco l’Atletico Madrid: sulla carta è la più debole". Parole e musica di Sulley Muntari, che non aveva evidentemente fatto i conti con l'oste. Troppo forte l'Atletico di Simeone, che plaude ai suoi ragazzi dopo le quattro sberle rifilate al Diavolo. "I knew that Milan could complicate things. We started better than them in the first half, and it seemed that we would go on and control the game after the first goal, but they got back into it. However my players were excellent in the second half".



Barcelona v Manchester City: Messi e compagni difficilmente sbagliano. Non è un caso se nei migliori d'Europa, loro, ci sono sempre. Lo ha capito il City di Pellegrini, sfortunato nel sorteggio alla prima volta in un knock-out round di Champions. Fabregas e Messi sono felici e soddisfatti: "We knew tonight would be difficult. They are a world class team. The first leg was a great result but we knew tonight would be a hard game, too. We will take a lot of positives from this and go home very happy".
"We knew we had to get a goal to calm ourselves down because of the potential they have. In spite of their goal I think that the tie was never in danger. We played well throughout and achieved our objective of getting through. After two very serious slip-ups in the league, in games where we didn’t play well, today we saw the Barcelona that people expect to see and we defeated a very difficult rival".
Meno contento ma comunque positivo Vincent Kompany, capitano dei Citizens.



Paris Saint Germain v Bayer Leverkusen: I parigini hanno una squadra fenomenale, e se facessero lo scherzetto? Con lo 0-4 rifilato alle "aspirine" in quel di Leverkusen la qualificazione era già archiviata, ma gli uomini di Blanc non mollano l'osso. Plauso speciale a Sirigu, sempre più leader di una retroguardia di livello mondiale.
Simon Rolfes: "It's not easy playing a match like this when you know that you are out, but for us it was about honour and prestige".
Di tutt'altro tono, giustamente, in casa Psg. Marquinhos celebra il suo goal, l'ennesimo di una stagione pazzesca: "It went very well for me - I not only started but also proved that I can score. It's great for the team. However, we must improve our defensive record. We must work harder on not conceding a goal".

Chelsea v Galatasaray: il gatto e la volpe. Come sempre la spunta la volpe, alias Josè Mourinho. Troppo superiori le individualità del Chelsea; molto bello il saluto dello Stamford Bridge a Didier Drogba, l'eroe della storica Champions League dei Blues.
"We really played very, very badly. It’s impossible to score with just one shot on goal. We need to take several steps in order to be a better team", le parole di uno sconfortato Mancini.
"We are in the last eight, among the best teams in the world, and all the big clubs are there. All our players deserve to be. I think the most difficult thing [for Drogba] was the way his team played because if you are a striker and the team is not there playing behind you, then you are a lonely man – it has happened to every striker in the world, and tonight it happened to Didier".





Real Madrid v Schalke04: Immenso? Decisivo? Devastante? Cosa dire di più su Cristiano Ronaldo? E' un mostro..e insegna ai tecnici italiani che, se lavori sodo e sei un campione, il turnover non serve.
Lo Schalke ci ha provato e Keller lo sa. "I was pleased with tonight’s performance because anyone who watched the game saw that we restored our honour. The team displayed a fighting mentality". Troppo più forti gli uomini di Ancelotti, che pensa già al sorteggio di domani: "We showed a good attitude, especially in the second half. All the teams in the quarter-finals are very strong – they are the best in Europe".



Nota stonata il grave infortunio di Jesè Rodriguez, uno che in casa Merengue paragonano a Raùl..


Borussia Dortmund v Zenit: Lo Zenit ci prova, rigenerato dalla cura Semak; il Borussia passa il turno. Un match bello, frizzante, dove a passare sono i tedeschi, più forti ma meno convincenti dello scorso anno.
"If we could have played a bit better at home and achieved a better result, we would have had a chance to qualify. They were better than us over the two legs and deserved to go through", le parole di un Semak dispiaciuto; "Zenit have a great team. They play some quality football and on a good day they will cause problems for anyone. You can never rule out a goal by a great player like Hulk. He's difficult to defend against", le considerazioni del maestro Klopp.



Manchester United v Olympiakos: la vera impresa del match day. Lo United, questo United, può davvero essere felice. I quarti in Champions sono un bellissimo risultato, specie se confrontato con le pessime prestazioni in Premier. Moyes ringrazia i ragazzi: "The fans deserved that because they have been fantastic. We did not play well over there but they put it right tonight. The players gave everything", e non potrebbe essere altrimenti.
Dispiaciuti i greci, che probabilmente meritavano di passare il turno nel computo delle due partite. "Looking at that result, one might think that it was a one-way match but that was not the case. We had our chances but we failed to convert them", le parole di Mìchel.
Eroi di serata, secondo me, De Gea e lo straripante Van Persie. La tripletta del tulipano ha ricordato ai tifosi dell'Old Trafford un altro grande "Van", quel Ruud Van Nistelrooy che tante meraviglie ha regalato a Sir Alex e compagni.




Ed ora... se ci rifosse un super Clasico ai quarti?

18 marzo 2014

Storie di calcio: l'extraterrestre, Rivaldo

"With tears in my eyes today I would like first to thank God, my family and all the support, the affection that I received during those 24 years as a player. Today I communicate to all my fans in the world , my history as a player came to the end. Just I have to thank the lovely career I have built over this years. There were many obstacles, challenges, waivers, longings, disappointments, but were much greater joys, achievements, growth, change. Sometimes teaching other learning but never lost my focus, always with dedication, determination and direction of God. In this long journey, many people passed through my life, some for a period, other friends who remain until now. I built my career upon a miracle, leaving in Paulista, no financial resources, no businessman, incentives only of my family, discredited by doctors and trainers , saw a distant dream come true. With persistence, dedication and especially with the hand of God, I came to be recognized as the best player in the world, world champion, among many other important titles in the history of football. Among trophies, medals, awards and titles, in a land where everything is consumed, here I leave a story, perhaps an example, but surely a testimony that is worth believing and fighting . " Everyone who competes in the games goes into strict training. They do it to get a crown that will not last, but we do it to get a crown that will last forever".

Saluta il calcio giocato, a 42 anni, uno dei calciatori brasiliani più forti degli ultimi anni. Rivaldo Vítor Borba Ferreira, o più semplicemente Rivaldo, è stato un'icona del futbol bailado e, ancor di più, del Barcelona.



Cresciuto nel Paulista, Rivaldo conquista le luci della ribalta a metà anni '90, segnando a raffica con le maglie del Corinthians e del Palmeiras. Le grandi giocate in patria gli valgono la chiamata nel vecchio continente, dove lo ingaggia il Deportivo la Coruna di John Toshack. Qui, insieme ai connazionali Djalminha e Flavio Conceicao, da spettaccolo. 21 reti all'esordio nella Liga valgono il terzo posto per il "Depor" e la chiamata del Barcelona.
In catalogna gioca cinque stagioni, affermandosi come uno dei più grandi campioni brasiliani. Segna, fa segnare e si guadagna un posto fisso in Nazionale, con cui scriverà pagine di storia importanti. 28 reti il primo anno, 29 il secondo. Poco da dire per un calciatore che dava tutto in campo, unendo giocate di pregevole fattura a goal pesanti; dribbling e passaggi intelligenti.



Sempre al servizio della squadra e dell'allenatore, Rivaldo è stato un campione a tutto tondo. Non a caso, nel 1999, il Pallone d'Oro di France Football viene recapitato nelle sue manone.



Già, perchè Rivaldo era un trequartista atipico. Molto alto, Rivaldo aveva una coordinazione pazzesca. Nonostante la mole, sapeva infatti destreggiarsi alla perfezione nello stretto, regalando emozioni. La sua specialità era la "bicicletta", o come preferisco chiamarla io, la rovesciata. Un'incredibile capacità di coordinazione e precisione per spedire la palla in fondo al sacco.



Dopo cinque anni e 130 reti con i blaugrana, Rivaldo lascia Barcelona. Il suo spirito indomito, guerriero, lo ha fatto entrare definitivamente nel cuore dei blaugrana, che lo salutano calorosamente.



Impossibile non amare un calciatore del genere, non a caso soprannominato "l'extraterrestre". Nel futuro di Rivaldo c'è il Milan, che, portandolo in Italia da svincolato, si candida ad essere la favorita per il titolo. "A Milanello ho trovato la mia Seleçao", dichiara il brasiliano. Agli ordini di Ancelotti, però, Rivaldo non riesce a sfondare, nonostante rimanga leader della Nazionale campione del mondo.



In due anni rossoneri Rivaldo non s'impone per il campione che è stato, ma lascia comunque il segno. Dapprima un goal di tacco pazzesco al Modena, annullato; quindi la vittoria in Champions League nel 2002-03. A fine stagione saluta tutti e torna in patria, ma il richiamo europeo sembra ancora troppo forte. Nemmeno una presenza nel Cruzeiro, ed ecco il ritorno nel vecchio continente. E' la Grecia a dargli un'ultima occasione di popolarità, che Rivaldo sfrutta alla grande.
"La tifoseria dell'Olimpiacos - ha detto l'ex Milan e Barcellona - è incredibile, molto più grande e passionale di quella del Brasile o del Barcellona. Non ho mai visto una cosa del genere nella mia carreira". Con i biancorossi gioca e segna, illuminando per tre stagioni il porto del Pireo.
Dopo un diverbio col presidente lascia l'Olympiakos e gioca per un anno nell'AEK Athen, prima di fare un'insolita scelta di vita. Rivaldo cede alla tentazione dei dollari e va a giocare in Uzbekistan, al Bunyodkor, dove segna qualcosa come 33 reti in 53 presenze.
A Rivaldo piace troppo giocare a calcio, non gli importa vincere o giocare ai massimi livelli, ciò che conta è divertirsi. Ormai sportivamente anziano, Rivaldo accetta il ruolo di presidente-giocatore al Mogi Mirim, un club paulista. Le porte del grande calcio, però, sembrano non chiudersi mai. Rivaldo esula infatti il suo canto del cigno al San Paolo, chiudendo poi quest0anno con lo stesso Mogi Mirim, in cui chiude una carriera vissuta al massimo.



Negli ultimi minuti di carriera, Rivaldo, si toglie una delle più belle e incredibili soddisfazioni che un padre e uno sportivo possono sognare: giocare con il filgio.



Padre del giovane fenomeno Rivaldinho, Rivaldo sembra concentrarsi appieno e definitivamente sulla carriera del giovane erede, già in rampa di lancio. Buon sangue non mente.



15 marzo 2014

Storie di calcio: Marco Di Vaio, la leggenda felsinea

"Mi vengono i brividi se ci penso, abbiamo iniziato insieme alla Lazio da giovanissimi e ora abbiamo trascorso un anno e mezzo insieme in Canada. Siamo stati insieme praticamente tutti i giorni, anche perchè per un periodo la sua famiglia non c'è stata. Sandro ha avuto la bravura e la fortuna di essere stato capitano della squadra che amiamo fin da bambini. Il settore giovanile e gli inizi con la Lazio sono stati il periodo più bello della nostra vita. E' qualcosa che ci lega tantissimo e che non ci toglierà mai nessuno. Ricordo con affetto gli insegnamenti di Mimmo Caso, fece capire a me e a Sandro cosa volesse dire essere un professionista. E' stato per noi giovani un maestro e un padre".

Un amore vero quello di Marco Di Vaio; un amore non corrisposto. La favola del centravanti romano, cresciuto nelle giovanili della squadra che ha sempre amato, s'interrompe bruscamente e fatalmente in un pomeriggio novembrino. Dopo l'esordio con Zoff e i primi goal sotto la guida di Zeman, Marco Di Vaio viene ceduto in prestito, al Verona.



"C'erano grandi attaccanti, da Signori a Rambaudi a Boksic. Io ero il sesto attaccante a quell'epoca, avevamo una sola competizione e capii che per me non c'era spazio. Sono andato prima a Verona e poi a Bari, ho avuto problemi fisici e ho attraversato un periodo difficile. Dovevo capire cosa volevo fare da grande, e dovevo capirlo da solo. Poi ci fu la possibilità della Salernitana, nel 1997 mi pagarono 5 miliardi ma non avevo ancora fatto nulla, a scatola chiusa. Lì sono rinato, riuscii finalmente a dimostrare qualcosa e lo stesso accadde al Parma".



La prima tappa si chiama Salerno, una città calda e assetata di calcio, di grande calcio. Di Vaio è il fiore all'occhiello della campagna acquisto granata; il gioiello che deve portare la Salernitana nel calcio che conta. Detto, fatto. Di Vaio trascina i suoi con giocate d'alta scuola e reti pesanti, fino a guadagnarsi il titolo di principe dei cannonieri, con 21 reti.
E così, nel 1998, la grande ribalta della massima serie, finalmente. Di Vaio non tradisce le attese, corre e lotta su ogni pallone. Con 12 reti va in doppia cifra, ma non riesce a salvare i campani da un'amara retrocessione in cadetteria. E' chiaro a tutti, però, che il ragazzo romano non può giocare in Serie B, il suo palcoscenico è la massima serie.
La grande occasione si chiama Parma, dove ha l'occasione di giocare accanto a due campioni veri: Marcio Amoroso ed Hernan Crespo, non so se mi spiego. 13 reti fra campionato e coppa, sufficienti per convincere i ducali a puntare su di lui come titolare, stante la cessione di Valdanito alla Lazio, proprio la squadra che da sempre è nel cuore di Di Vaio.
42 reti nelle due successive stagioni convincono la Juventus di Lippi ad acquistarlo e portarlo a Torino, dove si gioca un posto con Alessandro Del Piero e David Trezeguet.
"I due anni alla Juve hanno cambiato completamente il mio modo di ragionare. La professionalità di quell'ambiente è impressionante. Arrivare mezz'ora prima dell'allenamento e trovare giocatori già in campo, vedere che dopo la fine accade lo stesso...i livelli di impegno e concentrazione erano incredibili".



Le prestazioni di Marco sono buone, eccome. Davanti ha però due mostri sacri, ed ecco la decisione: addio alla Juventus. "Ci fu questa possibilità, in estate dopo le vacanze mi chiamarono dicendomi di avere bisogno di me. Alla Juve non giocavo tanto, avevo davanti un certo Alex Del Piero, e decisi di accettare. Dopo due stagioni il trasferimento al Monaco, ma quello è un mio grande rimpianto perchè in quel tipo di calcio non ci sono emozioni".
Valencia e Monaco sono parentesi agrodolci per Di Vaio, che sente la saudade dell'Italia. Pur di tornarci accetta di scendere in B, giocando per il Genoa. Con il Grifone gioca esterno d'attacco nel tridente di Gasperini, mettendo la sua esperienza al servizio della squadra. Ma non è quello il rossoblu che dona a Di Vaio, quello che lo farà entrare nella leggenda. Decisivo per il suo cammino è il passaggio in Emilia, al Bologna. Qui rinverdisce i fasti di due illustri predecessori: Roberto Baggio e Giuseppe Signori, storici volti del calcio italiano e grandi protagonisti con i felsinei.
Di Vaio trova a Bologna la sua vera dimensione, diventando in breve tempo il simbolo della squadra. "Il primo anno ho fatto 24 gol, giocavo come unica punta. In quegli anni sono passati tanti buoni giocatori, da Ramirez a Diamanti a Viviano. La società però scricchiolava, sono cambiati tanti presidenti. I personaggi come Morandi ci hanno aiutato tanto, anche a coinvolgere la gente. Ho vissuto un'esperienza bellissima e sono ancora tanto legato al Bologna".



Nel giro di poco tempo diventa un idolo, a suon di goal. Quattro anni, tutti in doppia cifra, fino al commovente saluto alla città, ai compagni. Un tunnel di applausi per un simbolo vero.



Veloce, letale, tenace. Marco Di Vaio è stato un attaccante formidabile, che ha raccolto di sicuro meno di quanto seminato. Per l'attaccamento che ha avuto nei confronti della Lazio, avrebbe meritato di vestire i colori biancocelesti, magari con la fascia di capitano.
"C'è stato un momento in cui sarei potuto tornare alla Lazio, dopo la fine del prestito al Monaco. Parlai con il presidente Lotito per due settimane, per me sarebbe stato il massimo tornare a casa. Mi misero in contatto prima con Sabatini e poi con Lotito, mai prima di mezzanotte al telefono (ride, ndr). Abbiamo parlato per due settimane consecutive, ma c'era l'ostacolo dell'ingaggio. Sarei arrivato a parametro zero, chiesi almeno di guadagnare quanto prendevo al Valencia, anche in più anni, ma non se ne fece nulla, la differenza tra domanda e offerta era troppo grande. Ringrazio comunque Lotito e Sabatini, per tre settimane ho sognato di tornare a casa".

Amante del calcio e dei grandi campioni, Di Vaio ha una collezione che tutti gli amanti del calcio invidierebbero. Grande Marco.





13 marzo 2014

Storie di calcio: Hidetoshi Nakata, da campione a fashion star

Doppietta alla Juventus nella prima assoluta in Serie A, tanto per gradire. Hidetoshi Nakata, tanto per chiarirlo subito, non è stato un bluff. Scordatevi tutti i preconcetti sul Giappone ed il calcio, sedimentati da anni di fumetti e giocatori bluff alla Kazu Miura, che ancora oggi fa impallidire i tifosi genovesi. Nakata, portato in Italia dal Perugia, è stato un ottimo giocatore. Fortemente voluto da uno dei più grandi mali del nostro calcio, Luciano Gaucci, Nakata si presenta con la calma dei forti e lo stile di un modello. Ma non si debutta nel campionato italiano rifilando due gol alla Juventus se si è brocchi. Hide, come lo chiamavano tutti i compagni di squadra, passerà alla storia come la prima stella mondiale del calcio giapponese, diventando il propulsore di un movimento sportivo che oggi è in continua ascesa, tanto in Giappone quanto nel resto dell'Asia.
"Cominciai a giocare a pallone all'età di nove anni. Fu la scuola a indirizzarmi su questa squadra. Eravamo molti ragazzini e un solo campo. Così, ci toccava fare i turni. Mi capitò di giocare anche all'alba, alle cinque o alle sei del mattino". Sacrifici e tanto olio gomito per arrivare in alto, laddove merita di stare un calciatore di qualità.
Eppure Nakata poteva diventare uno scienziato, un matematico. "A diciotto-diciannove anni mi ritrovai di fronte il classico bivio: università o pallone. Scelsi il pallone. Avessi proseguito gli studi, avrei optato per una facoltà scientifica. Con i numeri non ho mai avuto problemi."
Ma le passioni, a volte, prevalgono. Ecco quindi la prima occasione, griffata Bellmare Hiratsuka, una squadra di medio livello della Japan League. Quattro stagioni e sedici reti per convincere lo staff tecnico della Nazionale olimpica a portarlo ai Giochi; un'estate per stregare Gaucci, imprenditore romano dall'eccentrico gusto per la scommessa.

Correva l'anno 1997 e durante un torneo minore, tale Dinasty Cup, un giornalista del Guerin Sportivo s'innamora di lui. "Tre avversari saltati in dribbling in piena area cinese, passaggio smarcante al compagno Motohiro Yamaguchi che conclude a lato. É una delle tante perle esibite dal centrocampista giapponese Hidetoshi Nakata nel corso della Dynasty Cup, torneo del quale il talentoso numero 8 giapponese è stato eletto miglior giocatore... un elemento davvero interessante, questo Nakata, il solo fra quelli visti a Yokohama che potrebbe fare la sua figura nel calcio europeo".
Parole che riecheggiano come una musica soave nelle orecchie di Gaucci, che manda uno dei suoi in Giappone con un compito preciso: tornare in Umbria con lo schivo giapponese. A onor del vero, pochi lo sanno, Hide era già stato in Europa. In una gelida settimana di febbraio, nel 1996, ebbe la possibilità di fare uno stage alla Juventus. Conobbe Lippi, Vialli, Del Piero e tutti i campioni bianconeri. Aveva 19 anni e tanta timidezza addosso, così dopo sette giorni all'ombra della Mole, fece ritorno nel paese del Sol Levante con una chiara idea in testa: tornare in Italia. Evidentemente la Juventus, in qualche modo, era nel suo destino. Doppietta all'esordio con gli umbri, goal decisivo per lo Scudetto romanista in quel di Torino.

Ma andiamo per gradi. Nell'estate del '98 Gaucci lo porta in Umbria, portando a termine un vero affare, per sè stesso, per il calcio italiano e per l'Umbria. La regione è presa d'assalto dai turisti con gli occhi a mandorla, che bazzicano il Renato Curi come fossero consumati fan del Grifone; la Galex, società della famiglia Gaucci, vende a raffica le magliette di Hide. La Serie A scopre un gran talento, capace di andare in doppia cifra al primo anno. Non male per uno etichettato fin da subito come "fenomeno del marketing".

I dieci centri di Nakata contribuiscono a salvare il Perugia, che in estate respinge le avances dei grandi club. Gaucci non ci sente, Nakata non si vende. Cambiata guida tecnica, da Castagner a Mazzone, gli umbri hanno una solida certezza: Hide. Ma quando a gennaio bussa alla porta dei Gaucci Franco Sensi, tutto cambia. Difficile dire di no ad un compaesano; impossibile resistere a 32 miliardi di vecchie lire, il cartellino di Alenichev e la comprorietà del giovane Blasi.

Da un romano ai romanisti, Nakata saluta le urla di Mazzone e incontra un monumento della panchina: Fabio Capello. I due hanno caratteri diversi, profondamente. Hide, instaura da subito un buon feeling con il tecnico friulano, che apprezza la cultura del lavoro del giapponese. C'è un grosso problema, però, Francesco Totti. Nakata è forte, lo riconoscono tutti, ma il trequartista giallorosso è Totti, le punte sono Batistuta, Del Vecchio e all'occorrenza Montella. Capello prova a far ruotare i suoi uomini, li sfrutta al meglio. Hide risponde presente quand'è chiamato in causa, specie in quel di Torino. Si diceva che la Juventus era nel suo destino, ed è proprio Nakata a segnare il goal più pesante in chiave Scudetto. Con una bordata da fuori, dopo pochi minuti dal suo ingresso in campo, riapre il match, pareggiato in extremis dal solito Montella.



Non ho mai visto un giocatore così quotato mettersi tanto a disposizione dei compagni, della squadra. Nakata in giallorosso prova a fare il gregario, accetta il suo ruolo di seconda linea. E' ammirevole lo stile con cui, in guanti bianchi, fa il faticatore, gioca in posizioni poco congeniali. La Roma, dopo l'ubriachezza Scudetto, però scoppia. Nakata finisce sulla graticola e nella lista dei sacrificabili, scalando in poco tempo dalla panchina alla tribuna. Il talento non discute, il problema è che è utilizzato in un ruolo non suo. Nel frattempo il suo cartellino si è inevitabilmente svalutato. Circolano i nomi di Atletico Madrid, Milan e Inter, ma Hidetoshi resta ancora seduto. A sorpresa si presenta a Roma il Parma. Tanzi prova un colpo di coda e dietro ad un esborso di 28 milioni di euro si accaparra le prestazioni del giapponese. I ducali sono una compagine lontana parente di quella di fine anni '90, e Nakata si deprime di pari passo. Con il Parma arriva solo una Coppa Italia, vinta anche grazie ad un suo goal alla Juventus, tanto per cambiare. In Emilina non sfonda, non entra nel cuore dei tifosi, e nel gennaio 2004 arriva il trasferimento in prestito al Bologna.
Nakata sembra stanco, opaco e poco motivato, tanto al Bologna quanto alla Fiorentina, dove si trasferisce in estate. Il frizzante ragazzo capace di goal in rovesciata e dribbling ubricanti, non c'è più. Un ultimo sussulto in Premier, al Bolton, poi la decisione a sorpresa di abbandonare il calcio professionistico a soli 29 anni. Nakata, prima di salutare il mondo del calcio, scrive una lettera a tutti i suoi tifosi "Sono passati più di 20 anni da quando cominciai il mio viaggio chiamato calcio - scrive il calciatore giapponese - Non c'è stato nessun episodio né un motivo in particolare che mi ha portato a prendere questa decisione. Semplicemente sentivo che era arrivato il momento di staccarmi da questo viaggio chiamato calcio professionistico e volevo cominciare un altro viaggio che mi porti a scoprire un nuovo mondo. Tutto qui". Ad attenderlo un radioso futuro nel campo della moda.
Hidetoshi Nakata è stato uno dei giocatori più enigmatici del calcio moderno. Raramente sotto la luce dei riflettori, intorno a lui si son raccolte molte leggende e poche certezze. Di certo possiamo dire che avesse le qualità per stare nel grande calcio, probabilmente più dei suoi attuali colleghi giapponesi, Honda su tutti.

11 marzo 2014

Storie di calcio: Paolo Maldini, l'immortale

"Una volta ho chiesto a suo padre Cesare se c’erano possibilità che lasciasse il Milan, mi ha risposto di no".
Quando uno come sir Alex Ferguson farebbe carte false per averti, significa che sei un grande. Paolo Maldini, o più semplicemente "la difesa", nasce e cresce all'ombra della Madonnina. Da sempre ho provato per lui un certo affetto, forse per la sua data di nascita, quel 26 giugno che nella mia vita non può non avere un particolare significato.



Milanista nel dna e figlio d'arte, Paolo brucia ben presto le tappe nel settore giovanile di un Milan pre-Berlusconiano lontano parente della corazzata che sarà. Ad allenare il Diavolo è una vecchia bandiera, un simbolo: Nils Liedholm. Allo svedese il cognome Maldini non è affatto nuovo, anzi, è un dolce ricordo. Insieme a Cesare, suo compagno nella seconda metà degli anni '50, ha giocato e vinto tanto con la maglia rossonera, rivedere un Maldini in campo è stato come un flashback.
"Sono stato allenato dai migliori: Sacchi mi ha insegnato le basi, Capello mi ha fatto maturare, Ancelotti è un amico. Forse chi devo ringraziare maggiormente è chi mi ha fatto esordire: Nils Liedholm". L'affetto e la stima che si crea fra i due è palpabile, immediata. Lo svedese rimane stregato dalle qualità di Paolo; il futuro numero 3 ha un immenso rispetto per Liedholm, un vero simbolo del calcio e del Milan. E così, in un gelido pomeriggio di gennaio, l'esordio in massima serie. Paolo ha sedici anni e la sfrontatezza di chi non teme niente e nessuno. Non lo fa per superbia, ma per la grande calma che contraddistinguerà la sua intera carriera.

"Dove vuoi giocare, destra o sinistra?". "Decida lei", risponde un giovane Paolo; "vai e divertiti" l'ultima raccomandazione di un Liedholm calmo, sicuro della sua scelta. I fenomeni si riconoscono in fretta, con Maldini è stato il primo seme della difesa che sbalordirà il mondo e contribuirà all'aura leggendaria del Milan degli invincibili. Maldini, Galli, Costacurta e Baresi, una difesa tutta lombarda che renderà il Milan una delle squadre più forti del mondo.



Nato come terzino destro, Paolo fu ben presto adattato a giocare a sinistra. Da grande campione qual'è stato, Maldini non si limita a giocare a sinistra, ma diventa mancino a tutti gli effetti. Impara a calciare di sinistro con la naturalezza di un mancino naturale, a testimonianza di una tecnica individuale fuori dal comune. Fin dai primi match era chiaro che Maldini non era un difensore come gli altri, univa l'intelligenza di un centrale ad una facilità di corsa eccezionale; i piedi di un centrocampista e la visione tattica di un grande libero; la falcata di un mezzofondista e la potenza di un quattrocentista.
Maldini ha vissuto sulla sua pelle l'intera metamorfosi del calcio sacchiano, essendo insieme a Franco Baresi il fulcro di una rivoluzione difensiva. Niente più difesa a uomo e marcature asfissianti; largo alla zona e ai fuorigiochi, con i terzini lanciati in avanti a sovrapporsi. Lanciato sulla corsa, Maldini, era un'iradiddio. Raramente ho visto terzini così forti a presidiare la fascia, coprendo con straordinaria intelligenza tattica. Sempre pronto a spingere e farsi trovare sul fondo per i cross, il numero 3 era lestissimo a recuperare la posizione, a non lasciar passare nemmeno uno spillo dalla sua zona di competenza. Precisissimo nella tattica del fuorigioco, Maldini ha fin da subito evidenziato le sue migliori qualità: marcatura e tackle. Marcatore arcigno e concentrato, Maldini era una vera furia nei tackle. Efficace nel gioco aereo, pressochè insuperabile nei contrasti, Maldini è stato un giocatore di categoria superiore.

Titolare inamovibile dalla stagione 1986, Maldini convince tutti i detrattori pronti a parlare di nepotismo. Nel giro di un anno si era perfettamente integrato in quella favolosa mistura che stava diventando il Milan di fine anni '80: una difesa rocciosa, impenetrabile, al servizio della frizzantezza e dell'estro tulipano.
Colonna dell'Under21 guidata da papà Cesare, Maldini ci mette ben poco a convincere Azeglio Vicini a portarlo alla spedizione continentale del 1988, dove Maldini si consacrerà sulla fascia sinistra, in cerca di un erede dall'addio del "bell'Antonio" Mundial. Di lì in avanti la carriera di Maldini è una continua escalation, in Italia ed in Europa. Con in bacheca un tricolore, il nuovo Milan può dare l'assalto all'Europa che conta, facendo incetta di trofei e riconoscimenti. Il 5-0 rifilato al Real Madrid nella vittoriosa annata 1989 è un segnale forte e chiaro per l'Europa intera. A chi considerava il calcio italico capace di solo catenaccio e contropiede, il Milan di Sacchi risponde con veemenza. "Manita" al Real di Camacho, Martin Vazquez, Schuster, Sachèz e Butragueño; quattro schiaffi alla Steaua Bucarest di Giga Hagi, tanto per mettere le cose in chiaro.
Mai un infortunio, rarissime le squalifiche ed i cali di forma, Maldini ha una costanza di rendimento spaventosa. Tanto in Nazionale quanto nel Milan, Paolo è una colonna imprescindibile: indispensabile nei successi del Diavolo, incolpevole nella sfortunata eliminazione dell' Italia nella rassegna casalinga.

Il passaggio da Sacchi a Capello non muta né il suo rendimento né la sua titolarità, anzi lo fa crescere ulteriormente. Don Fabio costruisce una squadra meno spettacolare rispetto a Sacchi, improntata su di una difesa letteralmente d'acciaio. Il Milan frantuma qualsivoglia record difensivo, portando un buon portiere come Sebastiano Rossi a stabilire il primato di imbattibilità in Serie A, sottraendolo ad un monumento del calcio nostrano come Dino Zoff. Il vero capolavoro, però, lo si vive la sera del 18 maggio 1994, ad Atene. Il Milan di Capello, orfano di Baresi e Costacurta, affronta il Barcelona del santone olandese Cruijff. Koeman, Bakero, Stoichkov e Romàrio hanno già la coppa in mano, a detta dei media, ma i rossoneri tirano fuori il più classico dei "conigli" dal cilindro. Altre quattro sberle, forti e precise. Massaro, due volte, Savicevic e Desailly schiantano il borioso olandese, costretto a rientrare in catalogna con la coda fra le gambe. Maldini giganteggia sulla corsia sinistra, alzando sotto il limpido cielo ateniese l'ennesimo alloro di una carriera ancora florida ma già dannatamente vincente.
Passavano gli anni e si accumulavano trionfi, tranne in Nazionale, vera croce e delizia del numero 3. Dopo la sfortunata eliminazione da Italia '90, la beffa di Usa '94. Nel torrido caldo di Pasadena Maldini vede i suoi sogni volare via come i palloni calciati da Franco Baresi e Roberto Baggio. In Francia, nel '98, sono di nuovo gli 11 metri a farlo intristire; mentre nel '00 è il golden goal di Trezeguet a segnare un rapporto con l'azzurro inversamente soddisfacente rispetto a quello rossonero. Così, nel 2002, lascia l'Italia dopo la maledetta rassegna Nippo-Coreana, chiusasi con un goal di testa del perugino Ahn Jung-Hwan, che beffa in elevazione proprio capitan Maldini, mandando a casa l'Italia da Trapattoni.

Gli anni passano e, dopo quasi 15 anni ai massimi livelli, Maldini incomincia ad incutere rispetto, non più timore. Ecco allora la metamorfosi in centrale difensivo, uno splendido stopper. Puntuale negli anticipi, sontuoso in marcatura, capace di cavarsela in ogni situazione. Merito di un'intelligenza calcistica superiore e dell'incontro con un altro grandissimo difensore centrale: Alessandro Nesta.
Con il difensore romano compone una coppia difensiva unica, avvicinabile solo dallo storico duo Cannavaro-Thuram. Paolo aiuta Nesta a crescere ed affermarsi; Alessandro consente a Maldini di rinascere. "Il segreto della mia longevità penso derivi dal grande rispetto che ho sempre avuto per il mio lavoro, anche se io l’ho sempre considerato un gioco. E poi credo che sia una questione genetica. Mia madre e mio padre mi hanno dato un fisico che ha resistito negli anni un po’ a tutte le sollecitazioni legate all’attività agonistica".
E così, dopo la delusione di Istanbul, in una finale in cui segna la rete più veloce nella storia delle finali di Champions, ha il tempo di un ultimo grande successo. Ad Atene si prende la rivincita sul Liverpool ed alza la quarta Coppa dei Campioni, la seconda da capitano. Proprio ad Atene, dove già aveva schiantato il Barcelona, senza poter alzare la coppa con la fascia al braccio, una fascia che avrebbe meritato e che fu indossata per anzianità da Mauro Tassotti.
Quello fra Maldini e la Champions è un rapporto stretto, quasi intimo. Il successo contro la Juventus, nel 2003, sarà ricordato sempre con affetto dai tifosi del Diavolo, che dovrebbero solo ringraziarlo ed applaudirlo.

"Sono orgoglioso di non essere uno di loro". Maldini non poteva dare risposta migliore ad un'ignobile curva, capace di fischiare il simbolo del Milan.



Se i numeri hanno un senso, la carriera di Paolo Maldini sarebbe da consegnare direttamente agli dèi immortali. Maldini è stato un vero monumento, per rendimento, integrità e vittorie. La sua carriera, fatta di molte gioie e poche delusioni, è specchio del suo modo di vivere. Poco incline al chiasso e alle parole, in campo faceva sentire i tacchetti più che le urla. Fuori si godeva l'inevitabile star system intorno a sè, riuscendo sempre a rimanere dentro le righe.



Un campione vero, che ricorderò sempre per il rigore sbagliato con l'Olanda, ad Euro2000. Nessuno avrebbe il coraggio di andare a calciare coi crampi; nessuno tirerebbe un rigore in semifinale con il piede debole. Ma Paolo, fascia al braccio e coraggio da vendere, è andato lo stesso sul dischetto. Van der Sar ha parato, ma la sua scelta e il suo carisma rimarranno per sempre nei miei occhi.

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