Esperto di Calcio

23 aprile 2014

Storie di calcio: Ariel "El Burrito" Ortega

Estro, follia e classe. Sembrano la ricetta per un disastro, ma non sono altro che le componenti del campionato argentino, un luogo sacro per i giovani talenti sudamericani. In tempi non sospetti ho raccontato la storia di uno dei più forti trequartisti degli ultimi anni, Juan Roman Riquelme; oggi voglio invece ricordare le giocate e le follie di un altro pazzesco talento albiceleste, Ariel Arnaldo Ortega.
Dio tifa Boca, un gran bel portale, scrive parlando del Burrito:
"Sposare una squadra, non vuol dire non vedere oltre. Non poter godere di bellezze non proprie. Ed ecco ad esempio perché, nonostante la mia assurda e cieca devozione al Boca, mi chiedo come non potrei urlare al mondo intero che Ariel Ortega, per me, è stato uno dei migliori poeti della pelota che io abbia mai visto solcare, incantare e seminare con tale talento ‘non umano’ un campo di calcio ?
Senza ombra di dubbio devo dirlo e ribadirlo. Senza neanche pensarci troppo. No.
Si perché Ariel è stato letteralmente uno dei miei preferiti, uno dei miei idoli incontrastati, uno di quei ‘mostri sacri’ che hanno avuto il compito e l’onere di farmi innamorare di questo sport talmente tanto che adesso, io, non posso farne veramente più a meno.
Più del pane. Più dell’acqua che serve al mio corpo Prima di tutto, adesso, per me, c’è il fùtbol e le sue divinità. Una di queste, è appunto Ariel. L’immenso Ortega. Lo stratosferico Ortega.
Amato da me come se fosse uno dei miei, acclamato dal mio cuore nonostante fosse simbolo e ‘Dio’ dell’altra, malvagia ed odiatissisma, parte di Buenos Aires, quella delle galline. Ma questo non importa. Ho sempre amato quel ‘flaco’ dai piedi così maledetti ed imprevedibili che poteva inventare magia e calcio da un momento all’altro. Ha poca importanza che lui non abbia mai giocato per i miei colori, apparte nella piccola parentesi parmense, dove ha indossato gli stessi amati cromatismi bochensi. Si perchè per il resto della sua esistenza, lui, ha sempre giocato solo e soltanto per quelli che non potranno mai essere i miei colori.
Lui ha giocato per anni in quello che, anche se bellissimo, non sarà mai e poi mai il mio stadio.
Lui ha mandato in estasi gente che non mi apparterrà mai.
Ha visto l’inferno ed il paradiso con una maglia che odio e sempre odierò.
Tutto questo, purtroppo, non importa. L’evidenza deve essere mostrata, detta, spiattellata e resa pubblica, al di lá dei colori, al di lá della fede, al di lá di una verità che molte volte può fare male
".


Io lo capisco, eccome. Nonostante quei colori maledetti, ho sempre amato il Fenomeno, il primo Ronaldo che mi balzerà sempre nella mente. E Ortega, nonostante una stagione in chiaro-scuro con la maglia ducale del Parma, è stato un gran giocatore. Uno di quei predestinati, nati con un dono che pochi hanno la fortuna di avere. Ariel Ortega, nato calcisticamente nella cittadina di Ledesma, è il classico bambino prodigio. In strada incanta i passanti con i suoi palleggi, lunghi e duraturi; in campo annichilisce i bambini avversari, incapaci anche solo di colpirlo per fermarlo. Il suo piede destro, educato e delicato quasi come il mancino di un grande argentino del passato, regala rabone, pallonetti e dribbling a profusione. Troppo forte per giocare con i coetanei; inarrestabile anche per i ragazzi più grandi, indispettiti ed intimoriti al cospetto del piccolo asinello.
Nel 1991, a 16 anni, è già una colonna del River Plate e fa sognare l'intera nazione. L'Argentina, a quei tempi, ha un grosso, grossissimo, problema. Diego Maradona, il Dio del Boca, è in fase calante, ha quasi esalato il suo ultimo respiro calcistico. Ecco allora che Ortega, un ragazzino capace di accendere anche le giornate più buie, diventa il "nuovo Maradona". El Burrito, però, non ha il carisma di Diego; non ha la continuità di Maradona, nè la sua sfrontatezza. Ha colpi geniali, li dispenserà qua e là per tutta al carriera, ma non sarà mai Diego. Ed è giusto che sia così, perchè nemmeno Messi è Maradona, ogni calciatore è unico, nel bene e nel male.

Ortega incanta con la maglia dei Millonarios e con la camiseta valenciana, il suo primo approdo nel calcio europeo. A portarlo in Italia è la Sampdoria di Mantovani, che nonostante il talento del Burrito e la concretezza sotto porta di Montella retrocede. A Genova incanta con giocate sontuose, ma si fa vedere anche per quello che è uno dei suoi vizi più noti: la bottiglia. E così si avvia verso la fine della sua carriera, un misto di rimpianti e delusioni contornati da momenti di classe pura.
A raccontare la fine dell'era del Burrito, di nuovo le parole di Dio tifa Boca, un impressionante amante del folletto argentino.
"Destro, sinistro, colpo di tacco ed esterni da paura. Niente. Niente che quel maledetto vagabondo ubriacone non sappia fare, se solo si mettesse in testa di giocare seriamente.
Di giocare da Ortega, e non da Maradona.
Purtroppo però la stagione per la squadra genovese non va affatto bene, tanto che la Samp a fine campionato retrocede ed Ariel è il pezzo più pregiato del mercato che di li a poco inizierá.
Le grandi squadre però non possono permettersi un tale giocatore, talento si, ma discontinuo da far rabbia.
Alla fine la spunta il Parma, squadra dove il destino bastardo ha fatto si che giocasse un suo grandissimo ex compagno di squadra, anch’esso amico e guerriero di mille battaglie e gioie, Hernan Crespo, con cui vince una SuperCoppa italiana a stagione ancora da iniziare, ai danni del Milan del neo acquisto Shevchenko e della pantera nera George Weah.
I rossoneri passano in vantaggio al 59esimo con gol di Guglielminpietro, ma proprio Crespo pareggerà sette minuti dopo e Boghossian, nel pieno recupero, gelerà San Siro con un colpo di testa che porta i ducali in Paradiso.
Sembra proprio giunto il momento buono per Ortega per fare il tanto agognato salto di qualità, ma ahimè, neanche stavolta è quella buona: Ariel ricade nel suo maledetto vizio di incaponirsi troppo in giocate fini a se stesse, mentre fuori dal campo troppe volte cerca felicità nel fondo di una dannata bottiglia.

A fine stagione, così, finisce la sua, non certo positiva, avventura italiana.
Ariel fa rotta verso casa: torna al River.
Con’La Banda’ ritrova finalmente lo smalto dei bei tempi andati, come se l’aria di casa lo avessere rigenerato, tanto che, insieme a compagni del calibro di Radamel Falcao, Diego Buonanotte, Sebastian Abreu e Alexis Sanchez, riporta la gente del Monumental sulla vetta più alta del paese, vincendo, con i ‘millonarios’, un campionato mai in discussione: il Clausura 2002.
Ben presto il nome di Maradona torna ad accoratarsi al suo. Ed ad Ariel questo non piace.
A 28 anni decide così di scappare da quelle voci e di affrontare di nuovo un’avventura in Europa: stavolta ad aggiudicarsi i suoi servigi sono i turchi del Fenerbahce.
Dopo un inzio di stagione tutto sommato postivo, a febbraio il ‘burrito’ viene convocato dalla nazionale albiceleste per una partita.
Niente di strano direte. È no. Ariel, infatti, vola in Argentina, ma una volta riunitosi con amici ed ex compagni, decide di non fare più ritorno sul Bosforo.
La dirigenza dei ‘canarini gialli’ va letteralmente su tutte le furie. Porta l’asinello in tribunale e vince la causa, forte del fatto che Ortega aveva ancora tre anni e mezzo di contratto con gli acerrimi nemici del Galatasaray.
La FIFA lo squalifica fino alla fine dell’anno e lo costringe a sborsare la cifra monster di 11 milioni di dollari.
Dopo questa mazzata devastante, Ariel decide di dire addio al calcio
".

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