Esperto di Calcio

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31 dicembre 2013

Lamela-Inter, un affare che non s'ha da fare

Si fa un gran parlare della trattativa fra Lamela e l'Inter. Sportmediaset ha scritto recentemente: "Sfumato Lavezzi, obiettivo numero uno di Mazzarri ma dichiarato incedibile dal Psg, l'Inter ha virato in maniera decisa verso Erik Lamela. L'ex romanista, che con Villas Boas non è riuscito a trovare spazio, sarebbe pronto a lasciare Londra per trasferirsi a Milano e ricominciare dall'Italia la sua rincorsa ai Mondiali. Il Tottenham, che ha strapagato il giocatore in estate (30mln più 5 di bonus), starebbe valutando l'ipotesi di un prestito.
Il punto di partenza di una trattativa non facile sono i Mondiali. Lamela vuole andare a tutti i costi in Brasile, vuole partecipare alla corsa della sua Argentina alla Coppa del Mondo, ma l'esperienza che sta vivendo in questi mesi a Londra rende tremendamente complicata la realizzazione di questo suo sogno. L'ex romanista, acquisto top dell'estate degli Spurs, ha alla fine messo insieme la miseria di otto presenze in Premier, di cui cinque dopo essere partito dalla panchina. Quindi? Quindi la vita è altrove e altrove, magari, vuole dire Milano.
Mazzarri ha stima di lui, sa che l'argentino ha qualità tecniche importanti ed è capace di svariare su tutto il fronte dell'attacco e, alla bisogna, anche a centrocampo. E', insomma, un giocatore duttile con il passo adatto a ricoprire una vasta zona di campo e a innescare le ripartenze che piacciono tanto al tecnico toscano. Non è Lavezzi, almeno nella testa di Mazzarri, ma può fare il Lavezzi. Tutto su di lui, quindi, sperando di convincere il Tottenham a lasciarlo partire in prestito perché altra possibilità al momento non esiste. La cifra spesa dagli Spurs in estate per acquistarlo non permette cessioni a prezzi di saldo. Vale la pena, però, provare a permettere a Lamela di rimettersi in gioco in un'altra squadra. In una squadra che lo possa spedire dritto dritto in Brasile...
"

Ora, mi domando io, ma cosa se ne fa l'Inter di Lamela? E' un grande giocatore, e questo non si discute, ma non è adatto al gioco di Mazzarri. Lamela è un esterno offensivo letale, capace di partire da destra o da sinistra per accentrarsi e concludere in porta. Ha un carattere fumantino e ha una gran voglia di giocare, dopo mesi passati seduto su una panchina londinese. Lamela farebbe benissimo al nostro calcio, ma lo vedrei molto meglio alla Juventus, al Milan o alla Roma. I bianconeri troverebbero con Erik il più perfetto degli esterni offensivi, in grado di comporre con Tevez e Llorente il tridente del 4-3-3 che Conte agogna da qualche tempo. Al Milan, con un El Shaarawy in versione Pato, servirebbe come il pane, oggi come domani. Alla Roma si riprenderebbe il suo posto sulla fascia, relegando in panchina il riciclato Florenzi (che tornerebbe a fare il centrocampista) e garantendo con Gervinho una vera esplosione di tecnica e velocità sulle fasce. E nell'Inter? Si certo giocherebbe, e ci mancherebbe altro. Ma in che ruolo? Mazzarri non è in grado di mutare il suo 3-5-2, non lo ha mai fatto e mi pare non ci voglia nemmeno provare. Lamela agirebbe insieme a Palacio, nella coppia offensiva. Ma non è il suo ruolo naturale, perchè l'argentino non è Lavezzi. Ai nerazzurri sono altri i giocatori che servono, penso ad un centrocampista con le "palle"; a un difensore di spessore ed una prima punta vera, che restituisca al fortissimo Palacio la possibilità di giocare qualche metro più indietro e continuare ad incantare sotto porta ed in fase di rifinitura.

30 dicembre 2013

Storie di calcio: il ritiro del guerriero, Edgar Steven Davids

"I don't think I am going to play any more because they are taking away the fun.
I think I know for definite now that the league is targeting Barnet. I don't know how many games we have played now but there is weird decision-making all the time. It is ridiculous, especially the first [yellow card] because everyone can see I cleared the ball. That was an absolute disgrace. The other one for the red card was also a disgrace.
I am a target … I want the team to do well. If you look at the red cards, some are definitely red cards and some are exaggerated. It is hard to complete our tasks when a lot of decisions are against you."


Dice addio al calcio uno dei centrocampisti più forti degli ultimi 20 anni, un mastino, un lottatore, un uomo vero. Nel rendergli omaggio e nel salutare uno dei miei idoli d'infanzia e gioventù, ripropongo la sua storia, fatta di gioie e dolori. Il racconto di un ragazzo nato per il calcio, con il cuoio nelle vene.

Da bidone a campione. Questa la storia in Serie A di Edgar Davids, il centrocampista che più di tutti mi ha impressionato quand'ero ragazzino.
L'olandese, approdato alla Juventus nell'inverno del '97, ha unito per anni tutte le caratteristiche che un campione del centrocampo deve avere. Era tignoso come Gattuso, tecnico come Guardiola, rapido come Hamsik e con la personalità del miglior Pirlo.
Lo ammetto, ero sportivamente innamorato di Davids, perchè non tradiva mai. Era il primo a suonare la carica e l'ultimo a mollare, anche quando tutto era perduto.

Nato e cresciuto nel vivaio più celebre del mondo, ha esordito con la maglia dello stesso Ajax. Ben presto diventa una colonna dei lanceri, collezionando titoli e successi. Non solo campionati olandesi, ma una Coppa Uefa ed una Champions League regalano ad Edgar il pass per il torneo più difficile al mondo: la Serie A.
E' il Milan a investire su di lui, portandolo sotto la Madonnina sfruttando la legge Bosman. A Milano Edgar deve diventare un pilastro del Diavolo, ma qualcosa non funziona. Poche partite e molte incomprensioni spingono il Milan a cederlo per soli 9 miliardi di lire (4 milioni di euro) alla Juventus di Lippi.
Arriva a Torino con la nomea del piantagrane e del don Giovanni (si vociferava in città che al Milan lo avessero allontanato i senatori per le avances alle loro signore, un pò un novello Gullit), ma si rivela tutt'altro. Subito lanciato in campo da Marcello Lippi, diventa un idolo della curva Scirea. Capace di abbinare corsa e agonismo all'eleganza nel tocco di palla, Davids ritrova la leadership che lo aveva contraddistinto ai tempi dell'Ajax. Insieme alle prestazioni arrivano titoli a ripetizione, fino a quanto un problema alla vista lo blocca per alcuni mesi.



Rientrato da un'operazione agli occhi per un glaucoma, inizia l'era del centrocampista con treccine ed occhiali. Davids recupera la forma in men che non si dica, e riscopre la sua continuità di rendimento unita alla grinta, all'abilità nel tackle e alla straordinaria tecnica individuale, che ne fanno uno dei migliori interpreti del suo ruolo di quegli anni.
Pelè, nel 2004, lo inserisce nella lista dei 100 migliori giocatori in attività, ma qualcosa di li a poco si spezza con la Juventus di Lippi. Così, nel gennaio 2004, viene ceduto al Barcellona, dove da spettacolo.
In blaugrana trascina i suoi ad una stagione esaltante, compiendo a fine anno l'unico errore della carriera. Laddove poteva restare un leader, decide di lasciare il Barça per approdare nuovamente a Milano, sponda Inter. In nerazzurro chiude di fatto la carriera, non riuscendo ad incidere come avrebbe potuto.
Pazzo per il calcio, non si arrende e lascia l'Inter per continuare la sua carriera con varie maglie: Tottenham, Ajax, Crystal Palace. Infortuni gravi (tibia e perone) non lo fermano, e così ancora oggi lo si può vedere in campo e in panchina nel doppio ruolo con i londinesi del Barnet, squadra militante nella Ligue Two britannica.

Un carattere spigoloso, unito ad un fantastico talento, hanno reso Edgar Davids un campione a tutto tondo. Impossibile non amare il mediano orange, Davids è stato un idolo ovunque abbia giocato. Un giorno, a Torino, l'ho incontrato di persona. Mai visto nulla di simile: un corpo statuario, gonfio di muscoli, con delle gambe abnormi e uno sguardo di fuoco.
Giocatori come Davids, tignosi e corretti, forti e dinamici, tecnici ed estrosi, sono la fortuna del calcio moderno, quello che gli amici di Esperto di Calcio ameranno sempre.

28 dicembre 2013

Storie di calcio: la vendetta è un piatto che va servito freddo, Italia v Francia Euro 2000

Si poteva vincere e bisognava vincere. I problemi riguardano la conduzione della squadra: non si può lasciare la fonte del gioco Zidane sempre libero. Era una cosa che non si poteva non vedere, anche un dilettante l'avrebbe vista”.

Le parole di Silvio Berlusconi, all’indomani della sconfitta con i francesi, mi hanno lasciato l’amaro in bocca. Difficile digerire una partita come quella di Rotterdam, ancor più arduo pensare che Zoff lasci la Nazionale. Dino Zoff è stato un grandissimo uomo ancor prima che un campione del mondo ed un allenatore di successo. Ha sempre dato tutto per l’Italia ed ha sempre tenuto un atteggiamento corretto, onesto e mirabile. All’indomani delle sue dimissioni, ricordo bene, ero arrabbiato, frustrato. Non capivo come fosse possibile che le parole di un politico, per quanto influente, potessero spingere il commissario tecnico a gettare la spugna. Oggi, a distanza di 13 anni dall’accaduto, ho capito la scelta di Zoff. Da uomo di sport non ha messo in scena un teatrino, non ha fatto polemiche o dibattiti beceri e stucchevoli. Ha lasciato che l’Italia andasse avanti senza di lui, ha voluto liberarsi dalle pressioni e dalle calunnie immotivate. In cuor suo, ne sono certo, ancora oggi Zoff è fiero delle scelte che ha fatto, tanto in partita quanto nei giorni avvenire. Io, nel mio piccolo e per quanto poco possa valere, mi sento oggi di appoggiare e condividere la scelta, presa da un uomo tutto d’un pezzo a cui tutti gli sportivi italiani dovranno sempre e solo dire “grazie”.
Francia e Italia non è e non sarà mai una partita come le altre. Io sento tantissimo la rivalità, ma in generale tutti quanti sentono una sorta di “derby” con i propri vicini. I francesi sono i nostri “cugini” d’oltralpe, impossibile dire che sia una partita normale. In Olanda, poi, il match acquisiva ancora più significato, per due ragioni. Perché dopo la vittoria transalpina nei quarti del Mondiale casalingo ai rigori, l’Italia cerca la doverosa rivincita. Il secondo motivo è che moltissimi dei giocatori in campo giocavano o avevano giocato in Serie A. Le squadre, insomma, si conoscevano benissimo e la partita lo dimostrerà.

A Rotterdam l'Italia aveva la possibilità di bissare il trionfo europeo del 1968, mentre i francesi di Lemerre potevano vincere uno straordinario "double" dopo la conquista del Mondiale 1998. Gli uomini di Zoff, in divisa bianca per l'occasione, cercano di sorprendere la Francia già dall'inizio e Delvecchio dopo appena un minuto si trova solo avanti a Barthez, che riesce ad anticiparlo in uscita. Il portiere francese, da sempre riconoscibile per la sua “pelata” ed il bacio che Blanc gli dedicava, mi ha sempre portato il buon umore. Quando lo vedevo in campo la mia squadra trionfava, e la cosa mi ha sempre messo di buon umore. Nulla e per sempre, e Fabien ha prontamente provveduto a smentire il mio buon umore nell’occasione più importante.
Al terzo la palla del vantaggio plana sulla testa di Francesco Totti, che non ha mai avuto nel colpo di testa il suo colpo più efficace. Il giallorosso non imprime la giusta traiettoria e l’occasione viene vanificata, come quella che capita ancora a Marco Del Vecchio pochi minuti. L’Italia c’è, attacca con convinzione e annichilisce i cugini d’oltralpe, che si aggrappano intorno a capitan Deschamps ed il fuoriclasse che ha ereditato la numero 10 da Michel Platini.
E’ proprio Zidane a suonare la carica e portare la Francia a ritrovare i suoi riferimenti, facendo guadagnare metri preziosi per dare sfogo al suo talento ed alla velocità di Henry davanti, uno che quando c’è da buttarla dentro non si tira mai indietro. Fino alle fine del primo tempo le due squadre si fronteggiano in una guerra di posizione, in avanzamento gli uomini di Lamerre, in arretramento quelli di Zoff. Sembra un po’ la guerra di logoramento del ’15-’18, con nessuna delle due che riesce a prevalere sull’altra. Al 38' Henry ha un guizzo e libera al centro dell’area Djorkaeff, che calcia fra le braccia di Toldo. E’ l’ultima vera occasione di un primo tempo ricco di tensione e povero di palle goal. Le due squadre che lasciano il campo con poche certezze e tanti dubbi, consapevoli che nei successivi 45’ il campionato europeo si sarebbe deciso.
La ripresa inizia com’è finito il primo tempo, con i campioni del mondo all'assalto frontale e gli azzurri in affanno. Una superiorità territoriale, quella transalpina, che dura solo sette minuti. Zoff decide di cambiare assetto tattico e allora dentro Del Piero, fuori Fiore. Totti arretra sulla trequarti e questo crea scompiglio nella difesa francese. E così in due minuti l'Italia va in vantaggio. Totti riceve da Albertini e libera Pessotto con un magnifico colpo di tacco. Lo juventino ha il tempo di alzare la testa e crossare al centro, dove Del Vecchio è bravo e veloce a traffigere Barthez.
Il contraccolpo psicologico per la Francia è tanto forte quanto evidente. Per qualche minuto i cugini d’oltralpe vanno in trance, stregati dalle geometrie italiche. Gli azzurri ne approfittano e per poco non sfiorano il raddoppio. Un ispiratissimo Totti libera Del Piero. Pinturicchio scivola nell'area francese come la lama di un coltello nel burro, ma calcia troppo alla sinistra di Barthez, il pallone si spegne sul fondo. Le ripartenze azzurre bruciano l'ossigeno nei polmoni di Zidane e compagni e Zoff prova a congelare il match inserendo l’incontrista Ambrosini, a cui chiede di fare il guastatore davanti alla difesa e catturare i palloni aerei.

I francesi provano a riprendersi, ma le loro sfuriate si schiantano sempre contro il solito Toldo. I pericoli veri, i brividi, li corrono i nostri avversari. Al 77' Totti serve Del Vecchio con un lancio vellutato, il romanista calcia forte e trova solo l’esterno della rete. Pochi minuti dopo il pallone del raddoppio è di nuovo sugli educati piedi di Del Piero, liberato perfettamente da Ambrosini. Il numero 10 sbaglia nuovamente, aprendo un circolo polemico destinato a chiudersi con il goal nella semifinale di Germania 2006 ed il rigore in fiale, proprio contro la Francia.
L’Italia non riesce dunque a raddoppiare, ma tutto sembra presagire un successo di misura. Gli uomini di Zoff gestiscono il pallone e non soffrono eccessivamente le ripartenze francesi, ma quando anche il recupero sembra finito, la beffa. Wiltord riceve un assist tanto invitante quanto fortuito, nato da un’azione stranissima. Il pallone è sporcato da Cannavaro, ma arriva comunque all’attaccante colored, che tira fuori il classico jolly della vita. La conclusione passa sotto i tacchetti di Nesta, viene sfiorato dalla manona di Toldo e finisce in fondo al sacco, portando il match agli extra-time. La bastonata è stavolta per gli azzurri, che subiscono il colpo. Nelle gambe e nelle teste dei ragazzi s’insinuano dubbi e paure. Non sono i supplementari adrenalici vissuti in quel di Amsterdam, ma son minuti d’ansia. Per la Francia i supplementari sono un distillato di emozioni, per gli italiani un concentrato di terrore.
Ricordo con assoluta chiarezza la voce di Bruno Pizzul raccontare l’azione decisiva. La palla è nei piedi di un grandissimo calciatore come Robert Pires, che salta facilmente il suo marcatore e mette un invitante cross in mezzo. “L’attaccante più duro da marcare è Trezeguet, ti può punire in qualsiasi modo. E’ destro, ma può segnare con entrambi i piedi; è forte di testa e in acrobazia”. Le parole di Alessandro Nesta son profetiche, perché la sfera finisce proprio nella zona del futuro numero 17 juventino, che calcia di sinistro. La conclusione è fortissima, imparabile. La rete si gonfia, la voce di Pizzul si fa roca e prima della frase di rito per celebrare la vittoria francese si susseguono due-tre secondi di silenzio. David Trezeguet ci ha puniti, la Francia è Campione d’Europa ed esulta davanti a noi. Ci eravamo vicini, vicinissimi. Il contenzioso con i transalpini non finirà qui, ma questa è come sempre un’altra storia.

26 dicembre 2013

Storie di calcio: il "taconazo" di Redondo e le magie madrilene ad Old Trafford

E' stato uno dei match più incredibili della mia carriera: il gol di Raùl dopo il colpo di tacco di Redondo è stata una delle giocate più belle che ho visto su un campo di calcio”.

Pierluigi Collina, arbitro nella serata inglese, racconta una delle giocate più straordinarie che l’intera storia del calcio abbia regalato. Un numero francamente impensabile, inimmaginabile. Solo un campionissimo assoluto poteva concepirla, solo un giocatore con un’intelligenza calcistica ben oltre il normale. Fernando Redondo, quella sera, era in ottima compagnia, ma è stato certamente la stella più lucente, in grado di abbagliare la retroguardia dello United e meritarsi gli applausi di Old Trafford, uno stadio non certo facile da soddisfare quando non indossi una casacca rossa.
Tecnica, visione di gioco, precisione e dribbling. Sono queste le caratteristiche che deve avere un grande regista di centrocampo. Andrea Pirlo e Xavi Hernandez rappresentano, in tal senso, due istituzioni. Sono i giocatori che più di ogni altro incarnano le doti che un mediano che gioca davanti alla difesa deve avere. Sono completi, impostano e difendono; sanno far partire l’azione da dietro o verticalizzare in profondità; sono in grado di mettere in porta il compagno in mille modi e maniere. Tecnicamente eccelsi, offrono un ventaglio di soluzioni ampissimo. Non sono solamente dei costruttori di gioco, Pirlo e Xavi rappresentano per le loro squadre e i loro allenatori il fulcro del gioco. Danno poesia al gioco, creatività ed imprevedibilità; e, cosa più importante, sono capaci di sbloccare una partita. Con un assist o un goal su calcio piazzato non importa, sono decisivi. E’ questa la tipologia di giocatore a cui si ispira ogni ragazzo che gioca in quel ruolo. Il mediano davanti alla difesa è forse il ruolo che più è mutato nel corso del tempo.

Se quindici anni fa andavano in voga dei giocatori che fossero un vero e proprio schermo davanti alla difesa, oggi si cerca un centrocampista in grado di impostare il gioco, capace di costruire una manovra imprevedibile, fatta di possesso palla o improvvise verticalizzazioni. Difficile trovare una squadra europea che schieri in quella posizione calciatori con le caratteristiche di Marcel Desailly, Roy Keane, Stefan Effenberg, molto più semplice trovare dei registi di qualità. Pensiamo a Pirlo e Xavi, ma anche a Verratti, Xabi Alonso, Joao Moutinho o Ramsey. Al regista davanti alla difesa sono richieste grandissime capacità d’impostazione e organizzazione, più importanti rispetto al gioco aereo o alla forza. Ecco allora che anche le squadre più fisiche si affidano a centrocampisti che, seppur diversi, danno del “tu” al pallone. Sto parlando di Yaya Tourè, Gündoğan o Khedira, centrocampisti che fanno della tenacia e della corsa armi formidabili, ma che posseggono comunque fondamentali di qualità. In un calcio fisico e veloce come quello di oggi, sembra paradossale che si privilegi un centrocampista piccolo e compassato ad un atleta prestante e veloce. Ma a ben vedere è perfettamente sensato, perchè un metronomo è indispensabile. Proprio in un calcio che fa della rapidità e dei movimenti senza palla il suo cardine, è vitale avere un giocatore che mantenga la calma, che sappia mettere il pallone dove vuole. Un uomo in grado di dettare i tempi del gioco e degli inserimenti; che sappia valorizzare il lavoro di preparazione al match fatto in allenamento.

Questa sorta di rivoluzione filosofica è iniziata nella seconda metà degli anni ‘90, con l’argentino Fernando Redondo. E’ quindi il Real Madrid a fungere da spartiacque, dando le redini della squadra al centrocampista albiceleste, che guida la “Casa Blanca” al doppio successo in Champions League. Di certo Redondo non è stato il prima regista del calcio moderno, ma è stato il giocatore che più di ogni altro ha modificato il modo di stare in campo di una squadra. Da lì in avanti si è capito che, per vincere, avere in campo giocatori di prima qualità non poteva che essere un vantaggio. Il calcio spagnolo, fatto di possesso palla e grande tecnica, ha spinto il resto d’Europa a rivedere il modo di stare in campo ed i giocatori a cui affidare le chiavi del gioco.

Redondo, sfortunatissimo con la maglia del Milan, ha toccato il suo punto più alto nella serata di Manchester. Le note dell’inno della Champions stimolano i grandi campioni e il regista albiceleste quel giorno si è svegliato con un solo pensiero in testa: dare spettacolo. Fin dai primi minuti prende possesso del centrocampo, dominando al cospetto di calciatori come Beckham, Giggs e Scholes, non proprio i primi arrivati sulla scena europea. Al fischio di Collina le squadre partono alla pari, specie dopo lo 0-0 del Bernabeu. Le squadre si presentano con le formazioni migliori possibili. Ferguson schiera tutti i suoi talenti, affidando le sorti offensive della squadra ai “calipso boys”. Del Bosque sceglie di schierare l’argentino Savio ed Ivàn Campo, un capellone spagnolo baciato dalla fortuna nella sua carriera. In avanti la solita coppia, Raùl e Morientes con il “ribelle” Anelka inizialmente in panchina. Ricordo bene l’elettricità che si respirava nella notte inglese, con lo sguardo severo di Stam e la grinta di Roy Keane a guidare i “Diavoli Rossi”; e la casa blanca che si presenta in maglia nera, con lo sguardo fiero del torero Raùl a guidare i compagni.

Com’è semplice immaginare la partita si snoda sul filo dell’equilibrio, con le due compagini che si studiano, si temono e si preparano a colpire. La tensione è palpabile, sembra quasi una partita a scacchi, giocata nel frastuono di Old Trafford, uno degli stadi più belli del mondo. La chiave del match è a centrocampo, dove il Real prende con Redondo il sopravvento. Ma non si gioca solo nella zona nevralgica del campo, le fasce sono essenziali. Lo United può schierare Giggs e Beckham; il Madrid si difende con Salgado e Roberto Carlos, due dei più offensivi terzini che io abbia mai visto. Salgado si trasforma in ago della bilancia, contenendo Giggs e scendendo con regolarità nella metà campo inglese. A cavallo del primo quarto d’ora di gioco il primo punto di svolta. Salgado semina il panico sulla destra e mette il pallone in mezzo. Roy Keane interviene per anticipare Morientes, ma beffa il suo estremo difensore e porta in vantaggio gli spagnoli. E’ una doccia fredda per lo United, che in virtù dello 0-0 di Madrid deve ora vincere per sperare di passare il turno. Ecco perché Ferguson carica i suoi, li sprona e chiede loro di attaccare e attaccare.

Giggs si scrolla di dosso la marcatura di Salgado e inizia a macinare dribbling e cross. Da uno di questi nasce una bella occasione, ma il colpo di testa di Cole trova le manone di Casillas. Roy Keane mette a dura prova la marcatura di Ivàn Campo e combina molto bene con Dwight Yorke. Il centrocampista irlandese si presenta così davanti a Casillas e calcia in scivolata per anticipare il ritorno di Karanka, che si rivela preziosissimo. Il portiere iberico salva di nuovo i suoi e non offre al capitano dello United la redenzione che avrebbe meritato. Gli inglesi ci credono e a fine tempo producono il massimo sforzo, andando di nuovo vicinissimi al goal su azione d’angolo, ma il colpo di testa di Yorke finisce appena alto.

Nella ripresa il canovaccio tattico non cambia, ma stavolta il Real decide di ripartire velocemente. A cinque minuti dall’inizio del secondo tempo McManaman recupera palla e lancia Raùl. Il numero 7 controlla con il tacco, si avvicina all’area accarezzando il pallone e punta Silvestre, ex interista mai rimpianto a Milano. La finta di corpo dell’attaccante iberico è strabiliante, Silvestre perde il tempo e Raùl calcia col suo educato piede sinistro. La traiettoria della palla è perfetta e la sfera s’insacca alle spalle di Van der Gouw. La rete taglia le gambe allo United, che entra in una fase di confusione generalizzata. Roy Keane ha di nuovo la palla giusta, davanti alla porta sguarnita. Dal centro dell’area però il capitano irlandese calcia malissimo, con il corpo tutto all’indietro. Il “piattone” è ovviamente sballato e finisce in tribuna, mettendo a dura prova i sempre propositivi tifosi di casa. Redondo approfitta alla perfezione della confusione e giganteggia, fino a quando decide di entrare a far parte della storia del calcio. Sulla sinistra si trova di fronte a Berg, che sembra averlo chiuso. Il capitano madrileno fa scudo con il corpo e inventa un colpo di tacco sensazionale, che spiazza il terzino norvegese. Scatto imperioso e testa subito alta, per vedere ancora Raùl al posto giusto al momento giusto. Ovviamente lo 0-3 è una formalità, che consente a tutto lo stadio di tacere per un secondo buono, ancora incredulo dinnanzi alla giocata del campione argentino. Ricordo perfettamente il sobbalzo che ho fatto sul divano, e che faccio tutte le volte che rivedo quella giocata, probabilmente la più incredibile e geniale dell’intera storia del calcio.



A questo punto il match ha detto tutto cosa doveva dire, il sussulto d’orgoglio dello United ha reso solo meno amara la sconfitta, ha ricordato ai tifosi britannici che il verbo “arrendersi” non fa parte del vocabolario di un manager come Ferguson e di giocatori come Keane, Giggs e Beckham. Di fronte ad un Redondo ed un Raùl così, però, c’è solo da fermarsi ed applaudire.

23 dicembre 2013

Don Rodrigo fa suo il derby più brutto di sempre

Raramente ricordo tanta povertà tecnico-tattica in una partita come il derby di Milano. I primi ricordi che ho di questo match riportano a galla giocatori unici, sensazionali. Erano gli anni di Van Basten e Savicevic, Bergomi e Sosa. Calciatori di notevole talento, carisma e tenacia. Poi vennero i tempi di Baresi, Maldini e Boban; Ronaldo, Simeone e Vieri. Fino ad arrivare alle ultime sfide, con Ibrahimovic e Kaka sugli scudi, capaci di giocate uniche e avvincenti.
Ieri sera si è consumata una partita brutta, noiosa e a tratti di qualità così bassa da non essere considerabile come un match di Serie A. Eppure abbiamo assistito ad un derby scialbo e noioso, in cui Balotelli si è nuovamente dimostrato un "fanfarone" quando il peso delle responsabilità gravano completamente su di lui. Un incontro risolto dalla giocata dell'unico vero campione in campo, Rodrigo Palacio. Un tacco favoloso, sensazionale, unico. Bellissimo il suo goal, il classico bagliore nella nebbia meneghina.

22 dicembre 2013

Storie di calcio: quella partita a scopa dopo il sogno Mundial

La storia del Mondiale 1982, tratta dal bel blog "Storiedicalcio.com", credo si possa racchiudere in questa foto. Nella storica partita a carte fra Zoff, Causio, Bearzot ed il presidente Pertini è racchiusa l'essenza del paese, che sa stringersi intorno al calcio come pochi altri al mondo. A tre anni ed un giorno dalla scomparsa di Enzo Bearzot, il giusto tributo per un grande uomo ancor prima che un allenatore strabiliante, l'ultimo vero commissario tecnico che l'Italia ha avuto.


L'ottimo andamento nel Mondiale argentino del 1978 apriva un biennio importante per la Nazionale azzurra, seppur vuoto di impegni agonistici, data l'automatica qualificazione agli Europei, di cui l'Italia aveva ottenuto l'organizzazione. Il confermatissimo Enzo Bearzot, soprannominato "il Vecio" dallo scrittore Arpino, lo spese quasi esclusivamente a celebrare i propri fedelissimi d'Argentina. Due scialbe amichevoli ravvicinate in settembre con corredo di sonori fischi (1-0 a Torino alla Bulgaria, 1-0 alla Turchia a Firenze) chiarirono profeticamente che l'Italia non avrebbe vissuto di rendita sulle belle prove di Baires.

Il Ct ne prese atto in novembre, quando in amichevole a Bratislava la Cecoslovacchia umiliò i suoi prodi per 3-0. In campo c'erano gli undici "argentini", finì a botte e calci (Antognoni espulso), con l'Italia costretta a difendersi senza riuscire a reagire. Bearzot non aveva alcuna intenzione di battere nuove strade e finì nuovamente nel mirino della critica. A dicembre superò la Spagna per 1-0 con gol del solito Rossi, facendo esordire il giovane Giordano, piccolo e tosto centravanti, in auge nella Lazio grazie a doti tecniche da campione. In febbraio, ecco l'Olanda a Milano, con suggestioni mondiali. Bearzot inserì l'interista Oriali e il giovane stopper milanista Collovati; Rossi e Bettega fecero il resto, per un 3-1 scintillante. Commento più diffuso: la Juventus si allenava in campionato (dove, senza Rossi, zoppicava) per giocare bene in Nazionale.
Il Milan del sempiterno Rivera si accingeva a conquistare il proprio decimo scudetto vincendo il duello sul sorprendente Perugia, mentre il Vicenza di Rossi avrebbe di lì a qualche settimana pagato il proprio peccato di presunzione finendo in B, al termine di un torneo avaro di nuovi valori e di grandi espressioni spettacolari. Il che non poteva non alimentare il conservatorismo di Bearzot.

Il momento positivo degli azzurri proseguì in maggio, quando ospitammo all'Olimpico l'Argentina mundial, fresca vincitrice (ai rigori) sull'Olanda nel trofeo Fifa. Mancavano gli "europei" Ardiles, Kempes, Ortiz e Bertoni, ma c'era il diciottenne Maradona. Bearzot confermò la formazione del Mondiale arricchita da Collovati e Oriali e solo un rigore inventato consentì a Passarella di cogliere il 2-2. Quando l'impegno chiamava, la Nazionale sapeva rispondere. Tre settimane dopo, il Ct sembrò divertirsi con i suoi detrattori: per un'amichevole a Zagabria con la Jugoslavia diede la stura agli esperimenti (attacco a tre punte, inserimento di Giordano), col risultato di un sonante 4-1 per gli uomini di Miljanic. Come a dire: chi lascia la via vecchia per la nuova... Estate 1979, parte la stagione degli Europei per il nostro calcio, che deve sopportare un campionato gramo, povero di gol e spettacolo, l'Inter delle rivelazioni Pasinato e Beccalossi come grande protagonista. Cinque amichevoli sono in programma prima della manifestazione continentale. Un comodo successo sulla Svezia (1-0) a Firenze, poi una passeggiata (2-0) con la Svizzera a Udine, una spenta vittoria sulla Romania (2-1) a Napoli e un risicato 1-0 sull'Uruguay a Milano confermano la volontà di Bearzot di rimanere fedele alla linea tracciata, nonostante un gioco all'insegna quasi obbligata della noia, nell'interminabile valzer di amichevoli. Nonostante il pieno di vittorie, le critiche tornano a mordere l'immobilismo del Ct, prima che un evento di portata travolgente intervenga a scompaginare le carte, cambiando del tutto la scena. Acceso dalla denuncia di un fruttivendolo, esplode il Calcio-scommesse, il più grave scandalo della storia del nostro calcio. Si muove persino la giustizia ordinaria (per il reato di truffa), mettendo le manette al calcio. Tra i giocatori arrestati il 23 marzo 1980 al fischio di chiusura delle partite c'è Giordano; colpito da ordine di comparizione anche Paolo Rossi, trasferitosi al Perugia dopo la retrocessione del Vicenza. Dopo pochi, convulsi mesi, i due alfieri azzurri per gli imminenti Europei si ritroveranno appiedati dalla giustizia sportiva: tre anni e mezzo il laziale, due anni il perugino. Per Bearzot la mazzata è pesantissima. Il 19 aprile Rossi gioca in azzurro per l'ultima volta, per un poco rassicurante pareggio a Torino con la Polonia (2-2). Il Ct, così come gli appassionati, appare frastornato per la portata dello scandalo, allargatosi ai vertici tecnici minacciando la credibilità dell'intero movimento.

In questo clima di sfascio, mentre il governo del pallone riapre, dopo quindici anni, le frontiere ai giocatori stranieri, la Nazionale si ritrova a giocare l'Europeo in casa all'insegna dell'impotenza offensiva. Orbato dei due attaccanti più forti, Bearzot ripiega sul calante Graziani, riproponendo pari pari la Nazionale "argentina", con le uniche novità Oriali e Collovati. Bloccati sul nulla di fatto dalla Spagna in apertura a Milano, gli azzurri battono l'Inghilterra a Torino ben oltre l'unico gol, dovuto a una prodezza di Tardelli. Ma col Belgio è di nuovo zero a zero, complice l'arbitro Garrido, e addio finale, mentre l'intera manifestazione si risolve in un pauroso "bagno" economico, tra stadi vuoti e scarso entusiasmo generale. Come due anni prima, dobbiamo accontentarci della finale per il terzo posto, persa ai rigori con la Cecoslovacchia (1-1 dopo i supplementari) per l'errore decisivo di Collovati. La Germania rinnovata di Derwall vince meritatamente il titolo superando il Belgio all'Olimpico. Bearzot si lamenta: siamo quarti senza avere mai perduto, se non dal dischetto. La risposta è fin troppo ovvia: in quattro partite abbiamo segnato due gol. Troppo poco per pretendere di più.

Con la stagione 1980-81 si torna a parlare di Mondiali. L'Italia deve guadagnarsi l'accesso a Spagna '82 con Lussemburgo, Danimarca, Jugoslavia e Grecia. Passata la triste sbornia dell'Europeo, Federico Sordillo, dirigente di estrazione milanista, diventa presidente della Figc, con Franchi presidente onorario, e Bearzot riprende il suo cammino. Il dopo Rossi lo ha timidamente sperimentato facendo esordire contro il Belgio il centravanti interista Altobelli, detto "Spillo" per essere lungo e magro, oltre a possedere i guizzi in palleggio e i numeri sotto porta del cannoniere di razza. A settembre, a Genova, l'Italia batte 3-1 il Portogallo in amichevole ed è appunto il nerazzurro a siglare due reti.

Per i critici di Bearzot, che hanno ripreso a martellare duramente, la spiegazione è semplice: quando vince, l'Italia lo fa "nonostante" il suo Ct; ovvero: Altobelli è stato inserito obtorto collo, solo sulla spinta di una robusta campagna di stampa. Il dettaglio serve a spiegare le reazioni scomposte al primo della serie dei successi azzurri sulla via di Spagna. Si gioca in Lussemburgo, contro la solita volonterosa truppa di dopolavoristi, e il risultato che ne scaturisce, 2-0, viene considerato troppo esile, specie per lo scarsissimo gioco che l'ha prodotto e le due espulsioni (Causio e Antognoni) che l'hanno accompagnato. La "Gazzetta dello Sport" titola: «Bearzot, ora basta!». E spiega: «O il commissario tecnico cambia rotta, o lascia la Nazionale». Il "Corriere della Sera" rincara: «È giunto il momento in cui la Federazione ha il dovere di porsi seriamente una domanda: se sia il caso dì continuare a lasciare la Nazionale nelle mani di Enzo Bearzot. La nostra impressione è che, qui in Lussemburgo, siano sprofondate nella follia e nella vergogna le ottuse teorie immobilistiche del commissario tecnico». Il quesito diventa drammatico: riuscirà Bearzot a salvare la panchina? Quel che accade dopo è una risposta significativa: 2-0 alla Danimarca (1 novembre a Roma), 2-0 alla Jugoslavia (15 novembre a Torino), 2-0 alla Grecia (6 dicembre ad Atene). In pratica, la qualificazione in tasca in tre mosse. Una volta di più, i detrattori restano spiazzati. Anche perché sulla via del rinnovamento il Ct è parsimonioso, ma vincente. Dopo aver inserito stabilmente Altobelli, dovendo trovare il successore del declinante Causio, a chi gli consiglia Bagni e Novellino risponde scegliendo il venticinquenne Bruno Conti della Roma. Che in breve diventerà un irresistibile fuoriclasse delle fasce laterali. Identico buon fiuto rivela il Ct con la Capitolo II: La ripartenza di Bearzot < Prec. > Pros. < Prec. > Pros. pipa nell'investitura di Giampiero Marini, centrocampista di fatica dell'Inter, fatto debuttare contro la Danimarca e subito a proprio agio. A fine anno, impegno in Uruguay per il "Mundialito", la Copa de Oro organizzata per celebrare il cinquantenario del primo Mondiale. Il Ct azzurro ne approfitta per provare altre forze nuove: il vigoroso stopper del Como, Pietro Vierchowod l'interno romanista Ancelotti e il tornante perugino Bagni.

Quanto al torneo, l'Italia lo brucia al primo colpo, perdendo 0-2 contro i padroni di casa, ma soprattutto perdendo la testa (due espulsioni, Cabrini e Tardelli) di fronte alle provocazioni altrui e alla direzione di gara casalinga (eufemismo) dello spagnolo Guruceta Muru. Il secondo impegno, platonico, ci vede pareggiare 1-1 con l'Olanda, con gol di Ancelotti. I padroni di casa vincono poi su un forte Brasile. In febbraio, un'Italia svogliata le busca (0-3) da una Selezione Europea di stelle, in un'amichevole organizzata all'Olimpico a favore dei terremotati dell'Irpinia. Il campionato, ravvivato dagli stranieri, si avvia a una avvincente fase finale, da cui uscirà vincitrice tra le polemiche la Juventus.

In aprile Bearzot pareggia a Udine (0-0) con la Germania Est facendo debuttare Dossena, raffinato e concreto centrocampista del Bologna. Ai primi di giugno, il ritorno con la Danimarca evoca antichi fantasmi: perdiamo a Copenaghen per 3-1, giocando un match di impressionante squallore tecnico; aspettiamo gli avversari, tergiversando in melina, e quando quelli arrivano, in una ripresa ricca di vigorosi impeti, il nostro castello si sfarina miseramente al suolo. L'insuccesso dà nuovo fiato alle trombe anti-Bearzot, accusato soprattutto di perseverare diabolicamente sull'ormai decotto Bettega.

Parte la stagione 1981-82 con un poco esaltante 3-2 alla Bulgaria a Bologna (doppietta del sempiterno Graziani), seguito il mese dopo da un prezioso pareggio a Belgrado, contro la Jugoslavia. Da 42 anni la Nazionale azzurra non usciva indenne da quella terra e Bearzot ringrazia in particolare due suoi "pallini". Il primo è Zoff, ormai vicino ai 40 anni, per salvare il quale il Ct dopo l'Argentina ha sfidato l'ira funesta della critica, quasi unanime nel considerarlo al più un valido portiere d'albergo. Il secondo è il trentunenne Bettega, che respinge il prepensionamento con una grande prestazione (e relativo gol). Purtroppo, si tratta per lui di una sorta di canto del cigno. Il 4 novembre, a Torino, durante la partita di ritorno con l'Anderlecht di Coppa dei Campioni, in un duro scontro col portiere Munaron si infortuna gravemente. È il segno lugubre di una serata malinconica per il calcio italiano, i cui club per la prima volta nella storia sono tutti fuori dalle Coppe europee già al secondo turno.

Per la partita con la Grecia, dieci giorni dopo, sempre a Torino, Bearzot rimedia lanciando il cagliaritano Selvaggi, fantasista offensivo dai buoni guizzi. Si pareggia 1-1 tra pochi squilli di tromba e diffusi malumori, conquistando con Bergomi una delle peggiori prestazioni dell'era Bearzot la matematica qualificazione per la Spagna. I centravanti Pruzzo e Graziani combattono contro l'ombra di Paolo Rossi, la cui squalifica scadrà poche settimane prima del Mondiale. Proprio mentre cerca di reagire alla tempesta di critiche sul suo conto, un altro grande accusato azzurro, Antognoni viene estromesso di scena da un terrificante incidente di gioco col portiere Martina, che gli frattura il cranio. A dicembre, il poco dignitoso 1-0 con cui liquidiamo a Napoli il Lussemburgo nell'ultimo impegno di qualificazione rinfocola le polemiche contro Bearzot, reo di ignorare la fantasia dell'interista Beccalossi anche dopo il forfait di Antognoni.

Tetragono ai colpi della critica, il Ct col naso da pugile non si muove di un centimetro. A Parigi, in febbraio, le buschiamo (2-0) dalla solita Francia di Platini. A Lipsia, in aprile, torna Antognoni e Bearzot butta sul tavolo tre esordienti: se il terzino romanista Marangon e l'atteso Massaro, tornante della Fiorentina, aggiungono poco, il terzo, il difensore interista Bergomi, fa scalpore per la sua età, contando appena diciotto anni (e un aspetto da adulto testimoniato dal soprannome "zio"), e per la disinvoltura con cui si cala nella parte. Sul piano del gioco è un'Italia in panne, che concede ai tedeschi dell'Est il primo successo della storia nei confronti diretti. Il "partito di Beccalossi" le canta chiare a Bearzot al ritorno, alimentando un clima ormai generalizzato di completa sfiducia. Il campionato italiano sta vivendo una stagione di diffusa crisi tecnica, cui si cerca di rimediare portando a due il numero di stranieri per la stagione successiva, nella speranza che vengano i campioni di fuorivia a rinsanguare il nostro asfittico calcio. Il 2 maggio 1982 il neo juventino Paolo Rossi, scontata la squalifica, viene immediatamente mandato in campo da Trapattoni e risponde con un gol. La Juventus è impegnata in un testa a testa all'ultimo respiro con la Fiorentina per lo scudetto, da cui uscirà vincitrice sotto lo striscione del traguardo. Invano Bearzot attende che Trapattoni rilanci anche l'ormai guarito Bettega. All'indomani della chiusura del campionato, il Ct scioglie le riserve: al posto di "Penna bianca", atteso invano fino all'ultimo, c'è il cagliaritano Selvaggi. Viene ripescato pure Causio, spinto dall'orgoglio a una strepitosa stagione nell'Udinese. Per il resto, tutto regolare, compresi il baby Bergomi, scommessa audace, e Paolo Rossi, subito recuperato alla causa nella speranza che risolva i problemi di anemia della squadra. L'ultima amichevole prima della partenza, con la Svizzera a Ginevra, fa registrare un pareggio (1-1) povero di gioco.
È l'ennesima scintilla per un incendio ormai incontrollabile. A parte un paio di eccezioni, l'ondata delle critiche si leva violenta, raggiungendo toni ed espressioni oltre il limite della ferocia e addirittura dell'insulto personale. Nonostante l'avversario sia reduce da una sensazionale striscia positiva di risultati e la prova degli azzurri, sul piano della tenuta atletica e dei meccanismi di gioco, sia tutt'altro che da buttare.

Grandi manovre politiche si muovono attorno alla gigantesca torta del Mondiale. I Paesi extraeuropei premono per una più cospicua rappresentanza nella fase finale della Coppa e il brasiliano Joào Havelange, presidente della Fifa, li accontenta sulla base del nobile principio che i loro voti possono garantirgli a oltranza la conservazione del posto... La replica europea, di cui si fa paladino l'abile Franchi, non si fa attendere e la soluzione, a quel punto, pare obbligata: aumentare il numero delle partecipanti alla fase finale. Che salgono da 16 a 24, con quel che ne consegue sul piano della qualità complessiva della manifestazione e del logorio degli atleti. L'organizzazione della dodicesima edizione è stata affidata alla Spagna, sulla base di una impiantistica già notevole, di un'ottima tradizione tecnica e soprattutto di un periodo di risveglio sociale ed economico dopo il lungo periodo del franchismo.

Sono 105 le squadre iscritte, l'aumento di posti a disposizione sdrammatizza i gironi di qualificazione. Oltre ad Argentina e Spagna, partecipanti di diritto, passano alla fase finale: Germania Ovest, Austria (su Bulgaria, Finlandia e Albania), Belgio, Francia (su Eire, Olanda e Cipro), Cecoslovacchia, Urss (su Galles, Islanda e Turchia), Ungheria, Inghilterra (su Romania, Svizzera e Norvegia), Jugoslavia, Italia (su Danimarca, Grecia e Lussemburgo), Scozia, Irlanda del Nord (su Svezia, Portogallo e Israele), Polonia (su Germania Est e Malta), Brasile (su Bolivia e Venezuela), Perù (su Uruguay e Colombia), Cile (su Ecuador e Paraguay), Algeria, Camerun (su Egitto, Etiopia, Gambia, Guinea, Kenia, Lesotho, Liberia, Libia, Madagascar, Malawi, Marocco, Mozambico, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Tanzania, Togo, Tunisia, Zaire, Zambia, Zimbabwe), Kuwait, Zuova Zelanda (su Australia, Indonesia, Taiwan, Figi, Arabia Saudita, Iraq, Qatar, Bahrein, Siria, Corea del Sud Malaysia, Thailandia, Cina, Giappone, Macao, Corea del Nord Hong Kong, Singapore), Honduras, El Salvador (su Cuba, Suriname, Guyana, Grenada, Haiti, Trinidad, Antille Olandesi, Canada, Messico, Stati Uniti, Guatemala, Costa Rica, Panama).
Una sola vittima davvero illustre, l'Olanda, uscita a pezzi dal girone, superata non solo da Francia e Belgio, ma anche dall'Eire; esauritasi la generazione dei campionissimi, il "calcio totale" è bruscamente passato di moda. Capitolo IV: Una Coppa gigante < Prec. > Pros. < Prec. > Pros. Nel quarto gruppo tutto facile per Inghilterra, che chiude a punteggio pieno, e Francia, cui basta battere il Kuwait (con tanto di sceicco - presidente della Federcalcio kuwaitiana - in campo a minacciare il ritiro della squadra, ottenendo dall'arbitro l'annullamento di un gol regolare di Giresse, perché i suoi si sono bloccati a causa di un fischio malandrino) e non perdere con i cecoslovacchi per passare il turno.

Nel quinto gruppo gli arbitri sospingono la Spagna, destinata altrimenti a cadere per mano della sorprendente Irlanda del Nord. Un rigore discutibile consente alle ex "furie rosse" di salvarsi con l'Honduras, un rigore inventato (e ripetuto) la fa vincere contro la Jugoslavia dei campioni, inaspettatamente estromessa. I modesti irlandesi di Billy Bingham centrano la grande sorpresa.

Nel sesto gruppo, Brasile sugli scudi, seppure sospinto poderosamente dall'arbitro spagnolo Lamo Castillo a battere l'Urss in apertura. Poi, gioco entusiasmante, sulle ali di un centrocampo sublime (il "divino" Falcao, Cerezo, Socrates e Zico, con l'appoggio di Junior e Eder). Spazio anche per l'Urss, che supera la Scozia di Souness e Jordan solo grazie alla differenza reti.

Una volta di più, le condizioni climatiche favoriscono gli azzurri, spediti sull'Oceano atlantico, a Vigo, dove il freddo pungente rivitalizza gli atleti. Il girone, non proprio morbido, propone Polonia, Perù e Camerun: si qualificano le prime due. Il tradizionale match di allenamento viene organizzato con i portoghesi del Braga, neopromossi in A, sul loro campo oltreconfine. La prova non felice (eufemismo) degli spenti azzurri, che vincono grazie a un golletto di Graziani, suscita la reazione indignata del presidente federale Sordillo: «Se la Nazionale è questa» detta ai cronisti, «meglio tornare a casa». Rincuorato dalla pacca sulla spalla, Bearzot, sempre più solo, si accinge nel ritiro della "Casa del Baron" di Pontevedra a dar battaglia al mondo. Quattro giorni dopo, Bearzot conferma gli undici contro il Perù, ricavandone una partita doublé face: buon primo tempo degli azzurri, con gol dal limite dell'indiavolato Conti; ripresa disastrosa, con un rigore negato ai peruviani (atterramento in area di Oblitas da parte di Gentile) e meritato pareggio su tiro di Diaz deviato nella propria porta da Collovati. Nell'intervallo, il Ct ha tolto il fantasma Rossi, sostituendolo con Causio, senza rilevanti risultati. L'onda della critica si risveglia feroce...

Al terzo appuntamento, lo scialbo pari con il Camerun distilla la goccia che fa traboccare il vaso dei veleni. Bearzot sostituisce l'acciaccato Marini con Oriali, l'Italia va in campo senza idee e senza nerbo. Solo nella ripresa un cross di Rossi viene raccolto di testa dal vivace Graziani che infila il sorpreso N'Kono. Basta un minuto, però, e su un'esitazione di Scirea Kunde passa a M'Bida che batte Zoff da pochi passi, in sospetto fuorigioco. Il gol non basta al Camerun: le due squadre sono a pari punti e differenza reti, ma l'Italia ha il vantaggio di avere segnato due gol, il doppio degli africani. Ai quali non par vero di potersene andare eliminati sì, ma imbattuti. Finisce dunque in melina e in Italia si scatena la gazzarra.

Alcuni giornali montano una polemica sui premi stratosferici che sarebbero stati promessi agli azzurri: 70 milioni a testa solo per la qualificazione alla seconda fase, ottenuta senza riuscire a vincere neppure una partita. Puntuali, piovono le interrogazioni parlamentari, viatico al proibitivo girone di seconda fase, con i "mostri" Argentina e Brasile (passa solo la prima classificata).
In vista della prevedibile eliminazione azzurra, il fuoco incrociato dei cecchini della critica raggiunge punte di parossismo senza precedenti. Bearzot è stato dipinto come un minus habens:
«Prima di assumere l'alto incarico di Ct, trascorreva le sue giornate seduto sul caffè che dà sulla piazza di Ajello del Friuli e quando passavano gli automobilisti esitanti diretti a Udine o più oltre, e si fermavano per chiedere quale cammino seguire, il futuro Ct si affrettava ad insegnare loro premurosamente la strada giusta, per cui gli fu unanimemente riconosciuta questa sua qualità di insegnante. Poi si sa cosa accade a chi, senza essere dotato di un robusto equilibrio, ha la ventura di percorrere una carriera vertiginosa: perde facilmente la testa». Paolo Rossi gli siede accanto sulla graticola: «È una bestemmia mandarlo in campo. In queste condizioni un atleta si spedisce in montagna. C'è da chiedersi quali conoscenze di sport abbia gente convinta di poter cavare qualcosa da un atleta ridotto nelle condizioni di Rossi».

Gli azzurri si tuffano nel caldo torrido di Barcellona e comunicano ai cronisti una decisione senza precedenti. Indispettiti dalle voci sui premi e dalla simpatica insinuazione di un quotidiano milanese (su una tenera amicizia tra Rossi e Cabrini: a questo si è arrivati), proclamano il silenzio stampa. Motivazione ufficiale: le eccessive distorsioni delle loro dichiarazioni operate dai giornalisti nei loro resoconti. Unica eccezione: a nome di tutti d'ora in poi parlerà solo Dino Zoff, la cui loquacità, è noto, pareggia la popolarità di Bearzot tra gli operatori dell'informazione. Sordillo convoca una conferenza stampa per smentire i 70 milioni dello scandalo, senza peraltro sottilizzare più di tanto sulle responsabilità di chi le ha pubblicate. Tanto, tutti si preparano allo scempio che della povera Italia faranno i fenomeni argentini e brasiliani.

Il primo appuntamento è con i campioni del Mondo uscenti. Nonostante la pressione generale, Bearzot conferma nuovamente il deludentissimo Paolo Rossi. Torna al suo posto Oriali e si va in campo nel piccolo, ribollente stadio Sarrià. Qui avviene il miracolo. Di fronte a un'Argentina che ricalca la formazione 1978, con Diaz al posto di Luque al centro dell'attacco e il giovane fenomeno Diego Maradona per Ortiz (con Kempes all'ala), gli azzurri danno vita a una prova magistrale, cogliendo la prima vittoria. Il primo tempo scorre senza troppi sussulti, con leggera prevalenza degli uomini di Menotti e azzurri in fase di studio. Gentile annulla Maradona e nella ripresa l'Italia, rincuorata, si trasforma, dando vita a contrattacchi rapidi ed essenziali. Conti lancia Antognoni, avanzata e pallone sul limite dell'area per l'accorrente Tardelli, che spara in rete al volo di sinistro senza scampo per Fillol. In un girone a tre, chi perde il primo incontro è fuori per metà, logica la reazione rabbiosa degli argentini. Maradona colpisce il palo su punizione, ma tre minuti dopo l'Italia fa il bis: lancio dello scatenato Tardelli per Rossi, che spreca su Fillol in uscita, Conti raccoglie la respinta e dà a Cabrini, il cui sinistro al volo infila il portiere sulla sua sinistra. Due minuti dopo solo un nuovo, clamoroso errore di Rossi, sempre più stralunato, impedisce il terzo gol agli uomini di Bearzot, che cominciano ad accusare la fatica e qualche duro intervento avversario. Esce Oriali per Marini, esce lo spento Rossi per Altobelli. Su un fallo di Marini, Rainea decreta la punizione, Passarella non aspetta il fischio e sorprende Zoff con un tiro che picchia sotto la traversa e finisce in rete. Mancano pochi minuti, Gallego brutalizza Tardelli e viene espulso, Fillol con una prodezza assorbe un bel pallonetto di Conti ed è il fischio di chiusura. L'imprevedibile è accaduto, qualcuno tra i critici comincia a rettificare il tiro, anche se c'è sempre il Brasile dietro l'angolo pronto a fare giustizia di Bearzot e dei suoi... Per il Brasile si fa dura, le ali del gioco si appesantiscono, la manovra auriverde diventa affannosa. Azione Graziani-Oriali-Antognoni e tiro di quest'ultimo che sorprende di nuovo l'incerto Valdir Peres, ma l'arbitro annulla per un inesistente fuorigioco. L'ultimo brivido è allo scadere: cross di Eder dalla trequarti sinistra, Paulo Isidoro di testa spara in porta, il monumentale Zoff blocca il pallone sulla linea. In un tripudio di bandiere italiane, l'Italia si qualifica per la semifinale. Ha eliminato le due superfavorite del Mondiale, diventa la squadra più forte. E "Pablito" Rossi, redivivo, è per gli spagnoli l'«hombre del partido», l'uomo decisivo della partita. Il centravanti del miracolo.

Nel primo girone si sveglia Zbigniew Boniek, con una terrificante tripletta affossatore del Belgio, il cui controgioco non basta poi a bloccare l'Urss. Nel confronto diretto, i polacchi fermano gli avversari sul nulla di fatto, passando per differenza reti con un successo di portata persino extrasportiva (per lo smacco inflitto al "Grande Fratello").

Nel gruppo B, lotta allo spasimo: Germania e Inghilterra si astengono nel confronto diretto, poi i tedeschi, salvaguardati dall'arbitraggio onesto di Casarin, sbattono fuori gli spagnoli tra il cordoglio della tifoseria locale.
Gli stessi spagnoli, anziché "vendicarsi" regalando il successo agli inglesi, si battono con grande sportività, fermando gli avversari sul nulla di fatto.

Nel quarto gruppo, tutto facile per la brillante Francia di Platini (ma anche Giresse, Tigana e Tresor), che supera l'Austria di misura e poi travolge l'Irlanda.

La sensazione, in casa azzurra, è che il peggio sia ormai passato. La Polonia, già domata in avvio di Mondiale, non vale l'Argentina e tanto meno il Brasile. Oltretutto scende in campo priva dello squalificato trascinatore Boniek. Bearzot dal canto suo deve rinunciare allo squalificato Gentile, ben sostituito da Bergomi. Priva del suo leader, la squadra di Piechniczek si limita a una partita di contenimento, con una brutalità colpevolmente tollerata dall'arbitro Cardellino.

L'Italia, ormai sicura dei propri mezzi, controlla senza problemi e va in gol: punizione di Antognoni su cui l'inarrestabile Rossi al volo rapina il gol da pochi passi. Lo stesso Antognoni viene poi azzoppato da Matysik (cinque punti di sutura) e deve uscire, sostituito da Marini. Kupcewicz colpisce il palo su punizione, ma non c'è partita.
Nella ripresa, Graziani, "accarezzato" da Zmuda, viene sostituito da Altobelli, che tre minuti dopo lancia Conti: fuga sulla sinistra, cross a centro area dove "buca" Janas e alle sue spalle di testa il micidiale Rossi fa il bis. Capitolo VII: Le semifinali < Prec. > Pros. < Prec. > Pros. Splendida l'altra semifinale, una battaglia a colpi di grande calcio. Il guizzante Littbarski prima colpisce la traversa su punizione di Breitner, poi, su una difettosa risposta di Ettori a un tiro di Fischer, porta in vantaggio i tedeschi.
La Germania sembra rinata, dopo le opache prove precedenti ma la Francia ha fantasia da vendere. Tigana inventa che è un piacere, Giresse pennella una punizione per Platini, che di testa serve Rocheteau, K.H. Forster lo atterra. Rigore ineccepibile, Platini spiazza Schumacher dal dischetto e fa il pari.

Fino al novantesimo non si segna più, nonostante lo splendido gioco francese, pilotato da Platini, e radi ma efficaci contropiede tedeschi; uno spaventoso contrasto tra il lanciato Battiston e Schumacher in uscita costringe il francese a uscire, mentre lo stadio fischia i tedeschi.

Si va ai supplementari e i francesi finalmente concretizzano con Tresor e poi Giresse. Finita? Tutt'altro. Entra il claudicante bomber Rummenigge, che subito va in gol e sulla sbandata dei transalpini si allunga una zampata micidiale di Fischer. Sul 3-3 si va ai rigori. Dal dischetto prima fallisce Stielike, poi Six e Bossis lo imitano e i francesi escono di scena.

L'ultimo atto, nel monumentale Bernabeu tappezzato di bandiere italiane, è un inno alla superiorità degli azzurri. Bearzot manda in campo Oriali per l'infortunato Antognoni, avanzando Cabrini, con Bergomi, Gentile e Collovati marcatori (rispettivamente su Rummenigge, Littbarski e Fischer).
Graziani, sia pure menomato, scende in campo, ma una entrata di Kaltz lo sbatterà fuori dopo pochi minuti.

Derwall non se la sente di rinunciare al claudicante Rummenigge. Partenza guardinga delle due squadre, con marcature ferree: K.H. Forster chiude su Rossi, il fratello morde Graziani e poi Altobelli, Briegel picchia Conti; quando quest'ultimo trova un varco ed entra guizzando in area, il gigante lo stende e l'arbitro fischia il rigore. Mancando il rigorista Antognoni, batte Cabrini, il cui tiro sbilenco finisce fuori, radente il palo alla sinistra di Schumacher.

Azzurri avviliti, tedeschi in difficoltà a passare, gioco scarso. Nella ripresa, l'Italia è rinfrancata e per gli avversari non c'è scampo. Tardelli su punizione lancia Gentile, sul cui cross Rossi di testa anticipa Cabrini mettendo in rete. I tedeschi provano a reagire e vengono puniti: da Rossi a Scirea sulla destra, servizio per l'accorrente Tardelli, che di sinistro al volo infila Schumacher, abbandonandosi poi a un rabbioso e liberatorio urlo in corsa che diventerà il simbolo dell'Italia campione del mondo.

Pochi minuti e il gioco azzurro, che ormai viaggia sul velluto, produce ancora un gol, grazie ad Altobelli, servito da Conti e bravo a superare in serpentina Schumacher, Kaltz e Briegel e a depositare in porta.

Un diagonale di Breitner, su respinta della difesa azzurra, concede ai tedeschi l'onore delle armi. Poi, è il trionfo italiano, con Bearzot e i suoi festeggiati dal re spagnolo Juan Carlos e dal presidente italiano Pertini. Mentre nella stragrande maggioranza i critici del Bel Paese chiedono alla propria faccia una fatica supplementare per saltare sul carro del vincitore e inneggiare all'eroe Bearzot e ai suoi. Rimasti fino all'ultimo in silenzio stampa...

20 dicembre 2013

Storie di calcio: you'll never walk alone

“In una partita il Liverpool può segnarci 5 gol, ma anche noi a loro”.

Jordi Cruijff non è stato nemmeno l’ombra di suo padre, ma con questa profezia si è candidato per essere uno degli uomini simbolo della veggenza calcistica. Scherzi a parte, la finale di Dortmund è stata una delle partite più pazze che io abbia mai visto. Ha fatto divertire il pubblico allo stadio ed in tv, è stato un bellissimo spot per il calcio offensivo e ha per poco regalato alla Cenerentola della competizione un insperato successo. Gli strascichi di questa finale, di questo successo del Liverpool, purtroppo, si sentiranno poi anche nell’assegnazione del Pallone d’Oro, alzato da Michael Owen in un freddo inverno parigino fra l’incredulità di molti addetti ai lavori.
Il Liverpool in una finale europea non fa notizia. Gli inglesi, guidati in panchina dal francese Gerard Houllier, sono una squadra forte e compatta. Oggettivamente meno attrezzato del Liverpool di Benitez, i Reds pongono le basi per rinverdire i fasti di fine anni ’70 e inizio anni ’80, quando riempirono la bacheca di Anfield Road con quattro Coppe dei Campioni. Houllier sa di non avere una squadra forte come lo United o bella come l’Arsenal, ecco perchè plasma un 4-4-2 di chiara ispirazione italiana. Difesa e centrocampo sono reparti solidi e pratici, guidati dal capitano finlandese Sami Hyypiä e dal giovane campione inglese Steven Gerrard. In porta l’olandese Westerveld non è un fuoriclasse ma un portiere comunque affidabile, e questo passa il convento. Hyypiä è il leader di una retroguardia molto forte sui palloni alti, completata dallo svizzero Henchoz, dal tedesco Babbel e dall’inglese Jamie Carragher, un ragazzo duttile e di temperamento destinato a diventare una colonna dei Reds. A centrocampo Gerrard è il fuoriclasse in grado di cambiare i ritmi alla partita, di spaccare le difese con i suoi inserimenti. Completano il reparto il dinamismo di Hamann, la corsa di Danny Murphy ed il carattere dello scozzese McAllister. In avanti il fuoriclasse è senza dubbio Michael Owen, affiancato dall’ariete britannico Emile Heskey, capace di portar via il posto all’idolo di Anfield Robbie Fowler, ormai relegato in panchina.
L’Alavès di Josè Manuel Esnal è invece la classica favola calcistica. Una squadra convinta dei propri mezzi, tatticamente disciplinata e che trova l’annata della vita. Non a caso oggi, l’Alavès ristagna nei bassifondi della Segunda Division spagnola, ma a cavallo del nuovo millennio era un ostico cliente tanto in Spagna quanto in Coppa Uefa. Il dogma di Esnal è chiaro, “difendersi e ripartire rapidi in contropiede”. Il mister spagnolo schiera così un 5-4-1 che avrebbe fatto passare per offensivo persino Trapattoni, uno che ingiustamente è stato etichettato come “catenacciaro”. In porta l’argentino Herrera; in difesa i carneadi Karmona, Tèllez, Eggen e Geli. A completare il reparto l’unico difensore un pochino conosciuto, il romeno Cosmin Contra, che impressionerà nei primi mesi al Milan, salvo poi spegnersi in maniera clamorosa. A centrocampo l’ex romanista Tomic, un difensore riciclato mediano davanti alla difesa, e gli argentini Desio e Astudillo. A completare il reparto, giocando sulla destra, Jordi Cruijff. Il figlio del grande Johan è stato un giocatore modesto, per non dire mediocre. Eppure il suo cognome lo ha sempre aiutato, facendolo militare in club del calibro del Barcelona o del Manchester United, salvo chiudere la carriera a Malta, dove tutt’ora è viceallenatore dello sconosciuto clun locale Valletta. L’attacco gira tutto intorno al bomber spagnolo Javi Moreno, numero 9 sulle spalle ed un futuro a Milano, sponda rossonera. Javier Moreno Valera è stato una meteora con la maglia meneghina, così come nelle restati esperienze in carriera, ma in quella stagione ha saputo trascinare l’Alavès tanto in Liga quanto in Europa, guadagnandosi la casacca delle Furie Rosse in cinque occasioni.
Con queste premesse non doveva esserci partita. Troppo forte il Liverpool, troppo scafato ed esperto per farsi imbrigliare dagli spagnoli, eppure il calcio è strano. La gara dall' inizio alla fine esce da ogni schema logico, con il Liverpool sempre avanti e sempre raggiunto. Demerito degli inglesi, forse, ma anche merito di un Alavès che ha un cuore immenso, bravo a spostare la gara dal raziocinio al sentimento, trascinando nella sua folle rincorsa anche i tifosi del Liverpool. I sostenitori Reds passano dalla gioia sfrenata alla paura, dall’ ammirazione per l’avversario  al timore di un club che, da bravo basco, sembra più inglese di loro.
La partita, per l' Alaves, non potrebbe iniziare in maniera peggiore, con il tedesco Babbel che approfitta di una difesa ancora mal disposta per trafiggere di testa i baschi, girando in rete una punizione di McAllister. Una piccola gioia per l' ex difensore del Bayern Monaco, con ancora negli occhi il rimpianto della finale di Champions sottrattagli dalle mani dallo United di Ferguson in quel di Barcellona. L' Alaves è colpito a fredda e sembra non riuscire ad organizzarsi, spaventato dalla velocità di Owen e dalla casacca degli avversari. Il Liverpool ha quindi buon gioco e prende in mano il centrocampo, con Gerrard e Hamann bravia a pressare, recuperare palla e ripartire veloci con le loro trame offensive. Quasi subito, infatti, arriva il raddoppio, con Owen che smarca intelligentemente Gerrard, il cui destro non lascia scampo ad Herrera.
L’Alavés deve cambiare, non può continuare così. Il tecnico lo capisce e restituisce la sua vera identità alla formazione basca, sostituendo Eggen con l' attaccante Ivan Alonso. La difesa torna ad essere una linea a quattro ed il baricentro della squadra si alza di almeno quindici metri. La partita si fa improvvisamente più equilibrata, anche perché il Liverpool smette di pressare e si “barrica” a centrocampo, nel tentativo di difendere il risultato di vantaggio. L'Alaves non riesce a sfondare al centro e si affida alle discese di Contra, che dalla destra spara cross a ripetizione nell’area inglese. Proprio da un’iniziativa del romeno nasce il goal che riapre il match. Ivan Alonso è bravo ad avventarsi di testa e realizzare il goal che riapre la finale. La squadra basca prende coraggio, spinta dai suoi festanti tifosi. Gli inglesi sono ammutoliti ed un piccolo dubbio si insinua nella mente del Liverpool. Per la prima volta i Reds capiscono di dover vincere la finale.  
Desio e Jordi Cruijff provano a prendere in mano la squadra, ad accelerare e verticalizzare le loro aperture. Javi Moreno negli spazi stretti fa soffrire non poco le torri Henchoz e Hyypia, ma manca in un paio di occasioni la rete del pari, esaltando l’olandese Westerveld, eterno vice di Van der Sar in Nazionale. La gara sembra richiudersi nel finale di primo tempo, quando Herrera stende Owen lanciato a rete e rimedia una generosa ammonizione. Sul dischetto va lo scozzese McAllister, che trasforma e rigenera i tifosi Reds, pronti ad intonare il loro classico “you’ll never walk alone”.  
Come nella finale di Champions in cui il Liverpool “materà” il Milan, le squadre si avviano negli spogliatoi convinti che il match sia finito. Mai sottovalutare l’orgoglio basco, che in 5' della ripresa, riporta l'Alaves in carreggiata. A scatenare i bianoblu è un tarantolato Javi Moreno, che prima di testa su cross del solito Contra e poi su punizione pareggia. Incredibile.
Il Liverpool è in bambola e la rete del pari ne è la conferma. Moreno buca un' approssimativa barriera, costringendo Houllier a studiare delle contromosse. Smicer e Fowler si alzano dalla panchina e vanno a sostituire Henchoz ed Heskey. L'Alaves accusa l'intensità dello sforzo profuso ed inizia a rifiatare. Javi Moreno viene inspiegabilmente sostituito con Pablo, un centrocampista difensivo che snatura nuovamente l’architettura tattica spagnola. Il Liverpool, si stringe intorno ad un sorprendente McAllister centrocampista lento che fa correre veloce il pallone. Lo scozzese suona la carica ed il Liverpool riprende gradatamente il comando del gioco. Lo stesso scozzese offre al “vecchio leone” Robbe Fowler la palla del nuovo vantaggio. Il «bad boy» di Anfield trasforma in gol l’assist del compagno, ribadendo che è lui il più grande attaccante in quel di Liverpool.



Colpito al cuore, l'Alaves non s'arrende ed ha un sussulto d’orgoglio. Il pressing basco è confuso, quasi disperato. Perdere per perdere gli spagnoli fanno saltare gli schemi e si gettano in avanti senza mai voltarsi indietro.  Ad un passo dal baratro è Jordi Cruijff a regalare il più pazzo dei pari. Da un’azione d’angolo, Crujiff fissa di testa l' incredibile 4-4, un risultato inprobosticabile alla vigilia. I baschi hanno però speso troppo ed ai supplementari non ne hanno più. In meno di dieci minuti si trovano sotto di un uomo, per l’espulsione di Magno. A questo punto il canovaccio tattico è chiaro, si punta ai rigori. Ma quando Karmona al 10' del secondo, viene allontanato, l' Alaves si trova a scontrarsi contro Golia in nove contro undici.
Il Liverpool è rabbioso, non ci sta ad andare ai rigori, ma non trova gli spazi giusti. Crea densità ma non trova lo spiraglio giusto fra le serrate maglie basche. Solo un episodio può tradire l’Alavès, che si deve arrendere ad un proprio giocatore. Il difensore iberico Geli, al 115', stacca di testa su un’azione da calcio piazzato. La sua deviazione è tanto fortuita quanto sfortunata, perchè la traiettoria del pallone ruota verso la porta. Herrera, in uscita, è battuto da un auto-golden goal.

L’inno del Liverpool dice: “when you walk through the storm, hold your head up high”, ma stavolta a camminare a testa alta sono anche gli spagnoli, sconfitti ma mai domi. La crudeltà del calcio. 

18 dicembre 2013

Roma, la strada è quella giusta

Il calcio fondamentalmente è come la vita, ci sono alti e bassi, ma l'importante è rialzarsi sempre o per lo meno provarci, sempre. La Roma ha saputo rialzarsi, non si è arresa. Per alcuni sarà forse un concetto banale, ma questa è la mia visione personale della rinascita della squadra capitolina.
Luis Enrique e Zeman avevano provato a ripartire per tornare ai livelli di Spalletti e Ranieri e forse provare ad emulare la Roma del grande Capello. Nessuno dei due, nonostante idee e filosofie differenti, è riuscito in questo intento e adesso al timone del nuovo corso giallorosso è il francese Rudi Garcia.
La Roma "francoamericana", a tre giornate dal termine del girone d'andata, ha convinto tutti: tatticamente, caratterialmente e tecnicamente. Una Roma tosta, equilibrata e a volte spettacolare, capace di non perdere contro nessuno fino ad adesso. Garcia ed il suo staff son riusciti a ripartire, con squadra e  giocatori che sembrano captare al massimo le indicazioni del tecnico. Alla base della rinascita una  ben organizzata fase difensiva, con sincronismi perfetti, raddoppi, scalate e movimenti che permettono al pacchetto arretrato di non farsi trovare mai scoperto. Gli inserimenti di Benatia e Maicon nella retroguardia hanno permesso un notevole salto di qualità. Il terzino brasiliano, non sarà quello visto all'Inter, ma, problemi fisici permettendo, ha mostrato ampiamente le sue qualità. Il suo ingaggi ha permesso ai giallorossi di avere sulla destra un uomo di spessore in entrambi le fasi. Il centrale ex Udinese, si sta dimostrando l'uomo in più, quel leader del pacchetto arretrato che ha permesso blindare la retroguardia. Puntuale negli anticipi, preciso nelle chiusure, abile nelle palle alte e tecnico come pochi centrali al mondo, Benatia è il regista arretrato della squadra. Da lui parte il giro palla con cui la squadra da il via alla manovra e le sue giocate, nei piani del tecnico, dovrebbero imbeccare la velocità del reparto avanzato. Aggiungendo un Dodò molto migliorato tatticamente e tecnicamente, la conferma di Castan ed un Balzaretti ritrovato, la retroguardia ha compiuto un salto di qualità non da tutti pronosticato.
Tutto questo è stato possibile anche perchè, alla guardia del fortino, c'è un portiere d'esperienza e qualità come De Sanctis, che ha dato fiducia e sicurezza. Il suo carisma, alle volte fin troppo eccessivo, ha portato una nuova verve e finalmente, dopo uno Stekelenburg alle volte indeciso ed un Goicoechea imbarazzante, Sabatini ha affidato la porta ad un vero numero uno.

Il cuore del calcio è il centrocampo e quello romanista è sempre equilibrato e sincronizzato, con  meccanismi perfetti come un orologio di pregevole fattura. A differenza del dogma zemaniano, la squadra deve aspettare l'avversario molto basso, per rubar palla e ripartire rapido e veloce. L'innesto di una mezzala come Strootman ha permesso il salto di qualità alla mediana romana, poggiato sempre su Pjanic e De Rossi, due fuoriclasse senza tempo. Pjanic e Strootman, il primo più forte tecnicamente ed il secondo con maggiore forza fisica, svolgono un ruolo di pendolo tra il passaggio dalla fase di possesso a quella di non possesso, appoggiando De Rossi in fase di copertura e accompagnando molto bene il trio di attaccanti, con inserimenti senza palla. Come prima alternativa a questi tre, c'è Micheal Bradley, mezzala americana che abbina corsa e tecnica, con grandi tempi d'inserimento.
Infine il reparto che ha mostrato maggiore feeling con le idee del nuovo mister è l'attacco, rivoluzionato da Sabatini con le partenze di Lamela, Osvaldo e Nico Lopez e gli ingressi di Ljajic e Gervinho. Il reparto offensivo è un mix di esplosività e tecnica, che in base agli interpreti si combina molto bene. Rudi Garcia ha fortemente voluto Gervinho, forse l'esterno d'attacco più forte in Italia, in termini di dribbling, velocità e controllo palla. L'ivoriano si è mostrato fondamentale fin da subito per i meccanismi di Garcia,  andando a migliorare lo scacchiere offensivo della Lupa. La vera intuizione del tecnico è stata spostare nel reparto avanzato Florenzi, che con la sua corsa ed i suoi inserimenti si è mostrato molte utile alla causa, ritagliandosi il sogno di andare al Mondiale con l'Italia. Sabatini, insieme al mister, punta tantissimo sul ritorno di Mattia Destro, che è da poco rientrato in campo con tanta voglia, segnando due reti nei due spezzoni di match giocati con Fiorentina e Milan. Destro, a mio avviso, è il centravanti del futuro, la miglior punta italiana come qualità tecniche ed abilità nei sedici metri final. Gli infortuni l'hanno rallentato, ma se la Roma lo avesse venduto avrebbe commesso un errore, una pazzia.
Questa Roma è diversa dagli altri anni, è concreta, equilibrata, coesa ed alle volte anche spumeggiante. E' sulla strada giusta, sicuramente per rientrare nei primi tre posti, poi solo il tempo ci dirà se potrà giocarsi lo Scudetto. Certamente c'è ancora da lavorare per arrivare ai livelli della Juventus, ma ricordiamoci che i bianconeri prima di vincere lo scudetto venivano da un'annata disastrosa, sarebbe una favola bella e memorabile.
Dieci partite vinte consecutivamente, 24 gol fatti ed uno subito, questo è stato l'invincibile ruolino di partite con cui la Roma è arrivata alla decima giornata, poi quattro pareggi consecutivi che hanno fatto mettere i piedi per terra alla squadra e capire che c'era molto da lavorare per arrivare in alto, il ritorno alla vittoria contro la Fiorentina e il gran pareggio (forse troppo stretto) conquistato per 2 a 2 a San Siro contro il Milan.
Un cenno oltre al tecnico francese, che si è subito integrato nel progetto Roma, rimettendo "la Chiesa al centro del villaggio", lo meritano Francesco Totti e Walter Sabatini. Il capitano è l'emblema della squadra, un campione senza tempo. Il dirigente, a mio modesto avviso uno dei maggiori intenditori di calcio a livello italiano, è stato spesso  criticato, ed ora con la possibilità di lavorare solo, ha mostrato le sue qualità. E' stato abile a cedere Lamela, Marquinhos e Osvaldo a peso d'oro e a non sbagliare nessuna trattativa in entrata.
Per compiere il salto di qualità, forse, servirebbe acquistare un giocatore per reparto, soprattutto in termini di quantità. Un difensore centrale in grado di sostituire la coppia titolare, visto che Jedvaj è ancora acerbo e Burdisso in fase calante; un'alternativa a De Rossi, ed un esterno per completare l'attacco.
La Roma è sulla strada giusta, quella che porta alla vittoria, forse non subito, ma le fondamenta sono state poste. Il lavoro da fare ancora è molto, ma qui si respira un'aria diversa. Questa Roma può e deve riportare in alto il nome della capitale.

Andrea Pace

17 dicembre 2013

Storie di calcio: dare l'esempio, Alessandro Birindelli

Non è mai stato un campionissimo, ma il suo l'ha sempre fatto. Alessandro Birindelli è stato un onesto gregario, capace di servire l'assist decisivo a Barcelona; in grado di sfoderare un missile niente male al Riazor; e uno degli uomini della risalita in B, con tato di fascia al braccio in qualche occasione.




Domenica "Birindo" ha fatto un gesto forse poco sponsorizzato, ma profondamente bello e significativo.
Allenatore dei bambini pisani, Birindelli guida i suoi "piccoli campioni" nella trasferta di Ospitalieri. Durante la partita un ragazzino fa una giocata sbagliata, in tribuna il papà di un suo compagno di squadra sul campo si alza ed urla:"Levalo!".
Pronti via inizia un battibecco col papà del primo, poco avvezzo a sentire calunnie nei confronti del giovane calciatore. Le urla arrivano in campo, il mister chiede il timeout e in prima persona va loro a parlare: state calmi o ce ne andiamo. La partita riprende, così come la lite verbale fra i due "adulti". CBirindelli non è tipo da assistere passivamente. Richiama i bambini, avverte l’arbitro e gli avversari, e ritira la sua squadra dal campo.
La società non lo bacchetta ma lo elogia. Il d.s. Umberto Aringhieri esprime la sua solidarietà dalle colonne de "Il Tirreno": "E’ un gesto educativo e formativo. Se non si comincia a educare i genitori, i bambini, che sono i giocatori del futuro, non impareranno mai".
Aggiungere altro a questa vicenda significherebbe sprecare parole, preferisco ringraziare Birindelli e sperare che in tanti lo seguano. Dalla terza categoria alla Serie A, dai bambini agli adulti, lo sport deve unire e divertire. Molti non lo capiscono, speriamo che gli Alessandro Birindelli si moltiplichino presto in tutto lo Stivale.

16 dicembre 2013

Storie di calcio: in the name of the father, l'Old Firm

In the name of the father

I derby non sono partite come le altre, lo sappiamo tutti. Alcuni, però, si trasformano nel giro di pochi istanti in vere e proprie guerre, sportive e ideologiche. E’ il caso del SuperClasico argentino, ma ancor di più dell’Old Firm, una partita che non potrà mai e poi mai essere come le altre. Rangers e Celtic rappresentano due ideologie, due modi di vivere la Scozia, la religione, l’esistenza. Un odio radicato con antichissime origini, che risalgono al XVI secolo, quando Enrico VIII pose un veto alla Chiesa Romana dopo un aspro confitto matrimoniale. Rotti i ponti col papato, il sovrano britannico divorzia da Caterina di Aragona, ricevendo per tutta risposta la scomunica papale. Il 1532 è l’anno della scissione che sancisce il distacco della Chiesa Anglosassone da quella Romana.
L’odio sportivo ed ideologico che intercorre fra cattolici e protestanti, in Scozia, ha dunque origini antichissime, radicate nello scisma anglicano voluto da Enrico VIII non meno di 500 anni fa.

La Gran Bretagna è la patria del Football, la culla delle squadre di club. La Premier League è il campionato più prestigioso al mondo, ma accanto ad esso si svolgono partite di pari intensità. In Scozia il calcio è fede, una ragione di vita. In una città come Glasgow, spaccata in due fazioni, il club significa appartenenza sociale e religiosa. A Glasgow la rivalità sportiva è incentrata su due squadre di straordinario blasone: il Celtic e i Rangers. Cattolici contro protestanti, un odio viscerale che si trasforma in una più che centenaria rivalità sportiva. Le due “old firm” scozzesi, da sempre le squadre più ricche e blasonate di Scozia, insieme vantano qualcosa come 98 Scottish Premiership, numeri da far impallidire qualsivoglia compagine al mondo. Da una parte ci sono i cattolici del Celtic, dall’altra i protestanti dei Rangers. I tifosi del Celtic, convinti indipendentisti, si oppongono da sempre agli unionisti dei Rangers per una partita di calcio che, più che un derby, è una “guerra” politico-religiosa.

Con queste premesse il derby di Glasgow diventa un momento cruciale nella vita scozzese. Ibrox e Celtic Park sono stadi bellissimo, dove si respira quell’atmosfera british che ha secondo me qualcosa di unico. Un’impressionante macchia di colore, canti a squarciagola, incitamento fino all’ultimo istante. E’ grazie al tifo, al pubblico, se gli inglesi non mollano mai, fino all’ultimo secondo. Il loro calcio non è il più bello, è meno tattico del nostro, meno divertente di quello spagnolo e decisamente meno tecnico di quello sudamericano. Eppure la “carogna” agonistica che ci mettono è lodevole, rende interessante anche un calcio meno tecnico e più agonistico, fatto di traversoni, tackle, lanci lunghi ed interventi ruvidi.

Solitamenet Rangers e Celtic non hanno un appeal formidabile, il campionato scozzese è considerato un pochino al di sotto rispetto alle altre leghe europee. Ecco allora che in Scozia hanno trovato fama e gloria calciatori che altrove son passati o passerebbero inosservati. E’ stato il caso dei nostrani Annoni e Marco Negri, Lorenzo Amoruso e Massimo Donati; oggi dell’istrionico “bomber” greco Samaras, uno che al City ha messo a segno la pochezza di 8 reti in 55 apparizioni. Eppure Il pomeriggio del 26 Novembre 2000 vanno in campo due squadre decisamente forti, con individualità importanti.

I Rangers, squadra per cui ho un debole da sempre, hanno in panchina il guru olandese Dick Advocaat, coach il cui palmares parla da solo. I suoi Rangers sono una squadra compatta, forte, che può contare su di una difesa solida. In porta Stefan Klos; in difesa Numan, Konterman, Lorenzo Amoruso e Wilson, una linea a quattro che garantisce esperienza e sicurezza. A centrocampo Albertz e l’americano Reyna affiancano l’ex Ajax Ronald de Boer e Barry Ferguson, capitano scozzese tutto cuore a cui scorre nelle vene whiskey invecchiato in botte al posto del sangue. In avanti il gigante norvegese Tore Andre Flo e il bad boy di Edimburgo, Kenny Miller. Cresciuto nell’Hibernian, la punta scozzese sarà uno dei tre giocatori ad indossare nel corso della carriera entrambe le casacche, accettando la corte del Celtic nel 2006, dove milita un solo anno prima di redimersi e tornare all’ovile.

Il Celtic è invece guidato dal nordirlandese Martin O’Neill, un manager dalla mentalità offensiva, capace di esaltare la stella della squadra, un attaccante svedese di straordinario talento. Nello speculare 4-4-2 la linea difensiva vede in porta Douglas, da sinistra a destra Agathe, Boyd, Valgaeren e Mjallby, tutta gente nel giro della propria nazionale. A centrocampo Thompson e Moravcik supportano l’olandese Bobby Petta ed il bulgaro Stiljian Petrov, una vera istituzione nel suo paese. Davanti il “lungo” Sutton ed il vero fuoriclasse della squadra, dell’intero campionato scozzese direi: Henrik Larsson. Capelli rasta, velocità da scattista e goal nel sangue, Larsson è stato uno degli attaccanti più forti negli ultimi vent’anni. Zlatan Ibrahimovic, l’unico svedese a superarlo in qualità e goal, ha detto di lui nella sua biografia: “L’idea di giocare in Nazionale con Henke mi esaltava”. Non è un caso che Larsson abbia vinto una Scarpa d’oro e che dopo i 174 goal con la maglia del Celtic abbia giocato, e vinto, con il Barcelona ed il Manchester United.

Con queste premesse la partita di Ibrox non poteva non essere eccelsa, emozionante. La vivacità delle due squadre, il dinamismo degli attori in campo infiamma il pubblico. Le squadre, subito lunghe, attaccano e si scoprono, favorendo lo spettacolo. Un lancio di Amoruso, dopo pochi istanti, coglie impreparata la difesa del Celtic. Valgaeren si abbassa, Douglas la manca e Miller ha la palla giusta per il vantaggio. Cadendo all’indietro il centravanti calcia alto di qualche centimetro, scatenando un boato nei sessantamila di Ibrox. L’occasione scalda gli animi sugli spalti e soprattutto in campo, dove gl’interventi si fanno progressivamente più ruvidi. Albertz e Thompson fanno scintille, Barry Ferguson sale di tono. Il capitano s’infila bene e riceve palla da de Boer, sulla corsa ha bruciato il marcatore e si presenta davanti al portiere, trafiggendolo con un piatto destro. Il capitano è scatenato, pressa e corre come un forsennato. Quelli del Celtic non lo tengono, ma lo maltrattano per bene. Dopo un tackle ruvidissimo è lo stesso Barry a calciare la punizione, mancando di pochissimo lo specchio della porta.

Il primo tempo si chiude sull’1-0 ed il Celtic scende in campo nella ripresa più determinato che mai. Ovviamente è Larsson a riequilibrare il match, girando di testa su calcio d’angolo. La conclusione è perfetta e vanifica il tuffo di Klos, che non riesce nemmeno a sfiorare. Gli animi, a questo punto, si surriscaldano ancor di più. Ibrox nonostante il pareggio dimostra perchè io lo abbia considerato uno stadio speciale e trascina i propri beniamini. I Ranger rispondono mettendo sotto gli odiati cugini e trovando il nuovo vantaggio in men che non si dica. Su calcio d’angolo viene colpita una traversa e Tore Andre Flo si avventa sulla seconda palla come un falco sulla preda, insaccando con un calcio volante la porta del Celtic.

Le squadre si equivalgono e i ritmi son forsennati. Thompson, ammonito nel primo tempo per un fallaccio su Barry Ferguson, bissa l’impresa. Secondo giallo e doccia immediata per lui, che taglia le gambe ai suoi. Ferguson, privo di marcatura, spadroneggia letteralmente. Con un’azione solitaria spacca la difesa e mette in porta Flo. Il norvegese prova a beffare Douglas con un colpo sotto, non proprio la specialità della casa, ma si fa stoppare sul più bello. Sull’angolo susseguente è Ronnie de Boer a trafiggere con un colpo di testa, correndo a prendere l’abbraccio del suo pubblico. L’olandese non è un idolo come Ferguson, ma il goal nel derby ti fa diventare ben presto un beniamino. L’abbraccio degli scozzesi è quasi soffocante, la maglia di de Boer scompare per un momento, ma poi riappare il suo faccione noto, sorridente, compiaciuto della rete che vale probabilmente il match. Il Celtic è in ginocchio, ma i Rangers attaccano e lo fanno a pieno regime.

Nessuna pietà, è un dogma nell’Old Firm. Kenny Miller sale in cattedra, ubriaca i suoi marcatori e con una veronica si libera per calciare. Il tiro è forte e teso, Douglas salva sul suo palo una rete che sarebbe stata bellissima. Ancora angolo, ancora goal. Stavolta è Lorenzo Amoruso a realizzare il goal del 4-1, ancora di testa, nuovamente su calcio piazzato. Ibrox carica ancora di più i giocatori in campo, vuole la goleada. Il Celtic è tramortito, i Rangers scatenati. Douglas è preso d’assedio, e Kenny Miller vuole a tutti i costi il goal. Dopo un paio di miracoli viene pescato in area da Albertz, si allunga quel tanto che basta per insaccare il quinto goal e zittire fino al ritorno i cugini.

Nello scrivere dell’Old Firm provo un po’ di tristezza, di nostalgia. Dopo una storia più che centenaria, nel 2012, i Rangers falliscono e la sentenza è come una mannaia: terza serie. Mezza Glasgow è in festa, il resto in lacrime. Ma cosa si deve festeggiare? La bellezza dello sport è la competizione. La forza su cui si regge il calcio, specialmente quello scozzese, è la rivalità fra due ideologie ancor prima che fra due squadre. l'Old Firm, come viene chiamato da queste parti mancherà a tutti. Agli abitanti della città, agli scozzesi e a tutti gli amanti del calcio. E’ stata una rivalità difficile da comprendere, contenente al suo interno sentimenti ed emozioni, storia e passione. Solo vivendo la città e appartenendo ad una fazione politico-religiosa sarebbe possibile comprendere il vero significato che sta dietro a questo derby. Nessun'altra partita al mondo è così permeata di significati, nemmeno i duelli sudamericani, Argentina o Brasile che sia.

I Rangers rappresentano, economicamente, la tradizione; il Celtic incarna i valori della novità, raccoglie fra le sue fila coloro i quali hanno sposato l'unionismo, un'ideologia che spinge la Scozia al rafforzamento dei rapporti con la vicina Irlanda.
I campionati che il Celtic ha portato e porterà a casa con estrema facilità non avranno consistenza. Alla storia passeranno come titoli legittimi, ma il valore sul campo sarà relativo. L'Old Firm è il campionato scozzese, non si può prescindere da esso. Specialmente ora che le due tifoserie avevano spostato la rivalità da un piano animato e violento ad uno sportivo.

Gli scozzesi son un popolo forte e fiero, che si piega ma non si spezza. Ce lo ha mostrato chiaramente Sir Walter Scott in Ivanhoe; e ancor più ardentemente Mel Gibson, nel suo Braveheart. Niente di più vero, i tifosi dei Rangers hanno dato una lezione a tutti noi. Non si sono pianti addosso, hanno indossato sciarpa e maglietta e, come sempre, si sono presentati ad Ibrox. 49.118 spettatori hanno incitato ed acclamato i propri beniamini nella facile vittoria contro l'East Stirling, una squadra che quasi nessuno al mondo avrebbe mai conosciuto se non fosse stato per questa partita. La strada verso la gloria è ancora lunghissima, ma senza derby di Glasgow il campionato di Scozia non ha senso di esser seguito. Cara Scottish Premier League, see you next Old Firm.

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