Esperto di Calcio

26 settembre 2013

Storie di calcio: Marco Ferrante

La Torino granata, a cavallo fra gli anni '90 e gli anni '00, ha avuto un solo grande idolo: Marco Ferrante. Una scelta giustificata, perchè il bomber romano era davvero un attaccante di razza, uno di quelli che faceva la differenza.
E' lo stesso Ferrante a raccontare la sua carriera, che a Torino ha vissuto i suoi momenti più alti, ad iniziare da quel campionato 1999-2000, in cui Marcolino Ferrante realizzò ben 18 reti in Serie A.



"Sono cresciuto ai piedi del Vesuvio e mi ritengo di essere stato un calciatore fortunato ma allo stesso tempo sfortunato di essere stato svezzato nel momento in cui a Napoli c’erano tanti campioni. La fortuna di allenarmi con Maradona, Alemao, Carnevale, Careca, Fonseca e Giordano era tanta, ma ero un po’ presuntuoso e credevo di essere bravo quanto loro. La panchina mi stava stretta e questo non mi permise di fare bene dopo. Poi molti mi dipingevano come ragazzo prodigio e mi montai la testa. Col senno del poi fu quello un grave errore. Poi a Torino ho trovato la mia dimensione ed ho fatto bene legandomi molto alla tifoseria granata.
Un altro passo sbagliato fu andare all’Inter a gennaio del 2001. La squadra nerazzurra non navigava in acque tranquille visto che Lippi non era riuscito a mantenere le premesse iniziali e successivamente fu allontanato. Con me in panchina c’era già Tardelli. Fu un anno terribile credo come quello appena concluso in termini di risultati perché quando un club come l’Inter non va in Europa è un fallimento. Perdemmo un derby 6-0, giocammo a Bari per la squalifica di San Siro e in coppa non andò meglio con l’Alaves. Mettete pure il motorino gettato in curva dai tifosi per capire che clima si respirava in quel periodo. Ognuno ha ciò che si merita e quindi non ho rimpianti. O forse sì.

A Catania mi trovai in un club fantastico con un presidente come Pulvirenti che ti trasmetteva una carica unica perché ci stava vicino mostrando un attaccamento che non ho mai visto altrove. Peccato però che in quella stagione la squadra non era attrezzata per la B e la dirigenza voleva subito i risultati essendo appena arrivata a Catania. Questa pressione portò tanti problemi ma posso dire che nonostante poi sia andato via insieme ad altri miei ex compagni di squadra, Pulvirenti mi lasciò un ottimo ricordo. In sei mesi mi ha trasmesso più cose positive lui che tanti altri presidenti di club dove sono rimasto per più tempo".

Il rimpianto di essere andato all'Inter, una frase che difficilmente si sente dire. Eppure Marco Ferrante lo dice senza remore e senza censure, a testimoniare una cosa sola: viveva per giocare e per segnare. All'Inter non ebbe l'occasione, ed è un peccato. Non so dire se sia stato un suo problema o un problema del club; così come non saprei dire se Ferrante, come Hubner o Di Natale, fosse un bomber da "provinciale". Voglio piuttosto concentrarmi sui numeri, che ci dicono che Marco ha sempre segnato. Lo ha fatto con regolarità e senza paura, alle grandi come alle piccole squadre; in A come in B o in Lega Pro, dove ha chiuso la carriera con la maglia del Verona.



Quinto in solitaria fra i cannonieri della storia del Torino, ha superato persino un mostro sacro come Il Capitano del Toro, quel Valentino Mazzola indietro di due reti rispetto al numero 9. Non mi permetterei mai di dire che Ferrante sia stato meglio di Mazzola, ma una cosa la so: Ferrante aveva il goal nel sangue.
Destro naturale, non era un calciatore dal fisico poderoso. Eppure, veloce e tecnico, sapeva fare la prima come la seconda punta. In carriera ha giocato con Lentini, Pinga e Lucarelli, giocatori diversi fra loro ma con un comune denominatore: accanto a loro Ferrante ha sempre segnato.

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