Esperto di Calcio

7 maggio 2013

Antonio Conte, il perfezionista che pretende i campioni

Antonio Conte è un perfezionista. Raramente si vedono allenatori metodici come lui. Per organizzazione di gioco, preparazione fisica e mentalità è di certo entrato a far parte del gotha del calcio, con Mourinho, Ferguson, klopp, Capello e Lippi, tanto per fare alcuni nomi. Anche intervistato dalla Gazzetta dello Sport, il tecnico bianconero non si smentisce, predica umiltà e cerca di tenere i piedi per terra. Ibrahimovic, Higuain, Suarez...tutti campioni, che non bastano per la Champions. Siamo sicuri? Francamente di Conte ci si può fidare. 

Se chiedete ad Antonio Conte qual è il mese più dolce, vi risponderà: «Maggio, però...». Le ultime4 lettere sono il passepartout per entrare in contatto con la parte menoconosciuta del tecnico campione d’Italia: quella che in 18 anni gli ha fatto vincere (da giocatore e allenatore) 7 scudetti, 1 Champions e 2 promozioni in A. Sarà decisiva anche nei prossimi giorni, quando incontrerà il presidente Agnelli per discutere del futuro. E di una Juve vincente anche in Europa. Conte ha le idee chiare, le mette al servizio della società: poi lavora in modo maniacale per raggiungere gli obiettivi. Qui si ritorna al «però». Maggio è sì dolce (quasi tutti i suoi successi sportivi sono concentrati in questo mese), ma anche complicato. Questione di Dna: Conte non riesce ad accontentarsi. Un punto di forza, ma con effetti collaterali. «Lo so, me lo dice anche mia moglie (lo sarà ufficialmente a giugno, ndr): "Ma goditi ’sto scudetto almeno un paio di giorni". Non ci riesco. E poi ho un carattere che mi porta ad esternare poco le emozioni, ma non vuol dire che non le provo. Inoltre non riesco a dire bugie: meglio stare zitto, se provo a mentire divento rosso... Solo con mia figlia Vittoria le cose cambiano: lei riesce a farmi superare ogni barriera». A 48 ore dallo scudetto il «però» è nell’aria. Festeggiamenti finiti, si guarda avanti. Campionato e Champions. A Conte non basta partecipare, ma non si vince per grazia ricevuta. Insomma, nei prossimi giorni parlerà col presidente Agnelli e userà la franchezza avuta due anni fa, quando sempre a maggio si (ri)prese la Juve. Un discorso che l’allenatore svela nella sua autobiografia (scritta con Antonio Di Rosa, ex direttore della Gazzetta) in uscita domani: «Testa, cuore e gambe».

Conte, come lo convinse che lei era l’uomo giusto?
«Le parole arrivarono da dentro. Ero un tifoso della Juve e la vedevo impaurita, una nobile decaduta che scendeva in campo attendendo le mosse dell’avversario. Mentalità da provinciale. Il rischio, dopo i fatti di Calciopoli e due settimi posti, era proprio quello».

E quindi cosa propose?
«La mia idea di calcio dove il talento è al servizio dell’organizzazione di squadra».

Era stato contattato anche l’anno prima, maandò diversamente.
«Sì, avevo incontrato il d.s. Secco cercando di spiegare come intendevo rilanciare la Juve. Puntando sul gioco offensivo, macon un possesso palla a partire dalla linea difensiva. E poi avendo due esterni d’attacco per sorprendere gli avversari. Avevo anche indicato dei giocatori come modello: Robben, Lennon e Walcott...».

Invece le proposero Diego...
«Mi chiesero un parere: dissi con franchezza: "E’ un buon giocatore, ma abbiamo in rosa Trezeguet, Del Piero, Amauri e Iaquinta. Io spenderei i 25 milioni in altro modo". Sapete tutti come è finita».

In Inghilterra non è inusuale che un tecnico gestisca gli acquisti. In Italia il mercato è in mano ai dirigenti. Che ne pensa?
«Se hai un allenatore che ha una precisa organizzazione di gioco, non si può escluderlo dalle scelte tecniche».

Seguiamo il consiglio di sua moglie e parliamo dello scudetto. E’ stato più difficile vincere o rivincerlo?
«Entrambi bellissimi e complicati. Il primo era inaspettato, non eravamo favoriti e forse neppure considerati. Superare una corazzata come il Milan e restare imbattuti per un campionato è stato un capolavoro. Confermarsi non è mai semplice: gli altri ci aspettavamo, in più dovevamo gestire l’impegno in Champions. E poi c’è stata la zavorra del calcioscommesse...».

Ci arriviamo. Qual è stato il giorno in cui ha capito di poter ambire a traguardi importanti?
«Durante il ritiro negli Stati Uniti del primo anno. Avevo parlato alla squadra, fatto leva sulla voglia di riscossa di campioni come Buffon, Del Piero e Pirlo. E chiesto sacrifici a tutti. Senza sconti a partire dagli allenamenti. Un giorno li vedo sudare come pazzi, ma nessuno che si lamenta. Erano un po’ fiacchi, mi spiegano "Mister, fa troppo caldo". Non ci credo del tutto e allora faccio una corsetta per saggiare le condizioni. Beh, dopo 10’ a basso ritmo stavo svenendo. Sono tornato negli spogliatoi e ho fatto i complimenti a tutti per l’impegno nonostante il clima infuocato».

Lei ha detto di aver avuto la fortuna di allenare un gruppo fantastico, ma forse per arrivare a vincere fuori dall’Italia ci vogliono almeno un paio d’innesti importanti?
«Ai miei giocatori sarò grato a vita. Di certe cose, poi, è giusto parlarne con la società».

Che cosa può dirci, allora?
«Beh, quando sento certi commenti mi viene da ridere. Tipo: "Alla Juve bastano due acquisti per vincere anche la Champions". Sarebbe un discorso superficiale e presuntuoso. Ma di cosa stiamo parlando? La realtà è diversa: negli ultimo anni la vetta si è allontanata. Il ranking Uefa lo dimostra».

Ci vorrà del tempo per vedere una nostra squadra vincere in Europa?
«Spero di no, ma il rischio c’è se non si lavora in un certo modo. Non è solo una questione economica. Certo, i soldi aiutano a vincere, ma non bastano. Il modello da seguire è il Bayern: un progetto serio iniziato anni fa con Van Gaal, passato anche da sconfitte brucianti che hanno alimentato la ferocia dei calciatori. Alla base di ogni successo c’è: una organizzazione di gioco, una società disposta a seguire una strada precisa con investimenti mirati e una gestione oculata del vivaio. Solo così si può invertire la rotta. Il problema è che viviamo di ricordi...».

A che cosa si riferisce?
«Devono migliorare tutte le componenti del nostro calcio. Scendiamo sul pratico: ho sentito Robben l’altro giorno dire: "La nostra è stata una vittoria di squadra". Ha capito, Robben è un talento puro. Come Ribery. Eppure si sono messi al servizio della squadra. E’ l’organizzazione di gioco che esalta il talento, purtroppo da noi questo è un pensiero di minoranza. Si dice: "l’attaccante non deve stancarsi con il pressing altrimenti non è lucido in area, il 10 deve essere libero da ogni marcatura e tutto ruota intorno a lui". Non è così, almeno per me. E mi pare che questo possa essere un modello vincente».

Zeman sostiene che il Bayern è la squadra più forte d’Europa e lei l’allenatore migliore in Italia...
«Sul Bayern sono d’accordo. I complimenti fanno sempre piacere, specie da Zeman che non fa sconti a nessuno. L’ho votato per la panchina d’argento: a Pescara ha fatto un gran lavoro».

C’è stata una squadra, e quindi un collega, che in questa stagione merita i suoi elogi?
«L’Udinese perché Guidolin riesce ogni anno a fare i miracoli, nonostante le tante cessioni, sono sempre lì a dare fastidio alle grandi e lo fanno attraverso una identità riconoscibile. Non è un caso, insomma. E poi la Fiorentina: con Montella alla prima stagione sta facendo molto bene».

E in Europa?
«Tanto di cappello a Heynckes: ha vinto la Champions con il Real nel 1998 e praticava un calcio diverso. Ma non è rimasto fermo a quel sistema».

Le piace molto il gioco del Bayern?
«Sì, è molto simile alla mia idea di calcio. Con gli esterni a far male e una organizzazione perfetta in ogni reparto».

Adesso arriva Guardiola, porterà il modello Barcellona?
«Credo di sì. Sarà una bella sfida. Guardiola è tra i migliori allenatori in circolazione».

Altri nomi?
«Mourinho: riesce ad avere il 100% dalla squadra. L’Inter del triplete era un grande esempio di forza, abnegazione e volontà. Lui l’ha portata al massimo, andando via all’apice di un ciclo».

Quello del Barcellona è chiuso?
«Iniziamo col dire che ha vinto comunque la Liga ed è arrivato in semifinale di Champions. Considerarli al capolinea mi sembra esagerato. Certo, di recente sono molto Messi-dipendenti».

Sono stati presi a pallonate del Bayern, al confronto la Juve ha fatto un figurone.
«Mi hanno accusato, dopo il 2-0 di Monaco, di rassegnazione. No, ero solo sereno. Avevamo incontrato una squadra più forte. Ai miei giocatori non potevo chiedere di più. La distanza è ancora ampia, si può recuperare a patto che si facciano i giusti passi. E noi abbiamo bruciato i tempi. Questo è un rischio: non dobbiamo illuderci dopo i due scudetti e i quarti in Champions. La strada è lunga».

Ancora allenatori, in Italia chi l’ha influenzata di più?
«Arrigo Sacchi. Il suo Milan ha fatto la storia e tracciato una via importante: la squadra sopra il singolo e non viceversa. L’ho avuto in Nazionale e mi ha aperto la mente. Lippi e Trapattoni mi hanno insegnato tanto riguardo alla motivazione e gestione del gruppo».

Passiamo ai giocatori, il più forte in assoluto?
«Parlo degli ultimi 30 anni: Maradona, l’ho anche marcato. Uno spettacolo: negli occhi aveva ancora la felicità di un bimbo che gioca per la prima volta. Poi Messi. E Ronaldo, il Fenomeno dell’Inter».

Capitolo giovani: in Italia come siamo messi?
«Direi bene. Credo che l’Under 21 possa vincere l’Europeo. E anche la Nazionale ha un gruppo importante. Un nome? El Sharaawy: un giocatore totale, capace di attaccare e difendere. Cresciuto tantissimo e con ampi margini di miglioramento. E’ un patrimonio del nostro calcio».

Altre investiture?
«Insigne, talento di strada come Cassano e Miccoli. Può sempre fare la differenza, creando superiorità».

Se deve fare il nome di un giocatore per questo campionato?
«Tutti quelli della Juve. Al di là della mia squadra, invece, dico Cavani: un attaccante così completo è difficile trovarlo».

Quanto sono stati difficili i 4 mesi senza panchina per la vicenda scommesse?
«E' una cicatrice profonda. Quello che mi ha fatto più male è stato leggere articoli che davano per finita la mia carriera, avallando accuse prive di senso. Chi mi conosce sa che non accetterò mai compromessi. Alla fine ho subito una ingiustizia, senza prove. “Non potevo non sapere”. Faccio felice Crozza: la parola "agghiacciante" ha fotografato bene il mio stato d’animo».

Ha parlato di compromessi, domani torna a Bergamo: si è dimesso proprio perché non le andavano alcune cose?
«Sono convinto che ci saremmo salvati, maquando ho capito che potevo essere un problema mi sono fatto da parte. Peccato, perché la tifoseria è calda, vicina alla squadra, proprio come piace a me».

Lecce è la sua città, mail feeling è finito da tempo. Rimpianti?
«No, sono fatalista: doveva andare così. Mi hanno accusato di cose non vere, ho cercato di spiegarlo anche nel libro».

Che ne pensa della situazione del Paese? Lei è fortunato...
«E’ vero, sto bene e potrei togliermi degli sfizi. Ma non fa parte del mio carattere: non mi piace ostentare, do valore ai soldi e prima di qualunque spesa penso sempre ai sacrifici di mio padre "Cosa direbbe Cosimino su questo acquisto?"».

Il cittadino Conte che ne pensa della situazione politica attuale?
«Ha ragione il presidente Napolitano: i partiti devono pensare al bene comune. Anche lì è un gioco di squadra. Per troppo tempo si è badato agli interessi personali».

Chiudiamo con il futuro: resta alla Juve? Quali acquisti chiederà?
«Ci vuole rispetto per i miei giocatori e per la società. Di queste cose parlerò con il presidente e Marotta».

Facciamo un gioco: bussano alla porta i tifosi con tre pacchi regali per lo scudetto, dentro ci sono Ibra, Suarez e Higuain. Chi prende?
«Ahahahahah... A loro non si può dire di no. Prenderei tutti e tre. E per vincere la Champions non bastano mica...».


(Francesco Ceniti - Gazzetta dello Sport)

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